Roma, Teatro Ostia Antica Festival 2025
EDIPO RE
di Sofocle
traduzione Gianni Garrera
adattamento e regia Luca De Fusco
con Luca Lazzareschi (Edipo, Tiresia, Servo di Laio),
Manuela Mandracchia (Giocasta)
Paolo Serra (Creonte),
Francesco Biscione (Sacerdote Corifeo),
Paolo Cresta (Nunzio Corifeo),
Alessandro Balletta (Messo Corifeo)
scene e costumi Marta Crisolini Malatesta
disegno luci Gigi Saccomandi
musiche Ran Bagno
creazioni video Alessandro Papa
produzione Teatro di Roma – Teatro Nazionale
Roma, 02 luglio 2025
«Γνῶθι σεαυτόν» – Conosci te stesso. È forse questo il monito più profondo che la tragedia sofoclea Edipo Re consegna all’umanità, un ammonimento inciso nel marmo del pensiero greco e trasmesso, come fuoco sacro, alle epoche successive. Ma se l’iscrizione delfica prometteva la sapienza dell’autocoscienza, è proprio nel paradosso dell’inconoscibile che Luca De Fusco, nell’ambito del Festival internazionale del teatro di Ostia Antica, immerge la sua regia, offrendo una visione dell’Edipo Re che si fa enigma oscuro, viaggio negli abissi dell’anima e nel labirinto dell’identità. La tragedia, come nota Aristotele nella Poetica, è imitazione di un’azione seria e compiuta, che suscita pietà e terrore, e porta alla katharsis. In Edipo Re la mímesis tocca vertici sublimi: l’indagine dell’eroe si fa interrogazione del destino umano, e la scoperta finale – quel tu sei l’uomo che cerchi – esplode come detonazione tragica nella coscienza di chi guarda. Edipo, colui che si crede redentore, è in realtà colpevole, e proprio il suo sapere lo precipita nell’oscurità. Questo dramma dell’identità e della colpa, della vista e della cecità, della libertà e del fato, trova nella messinscena di De Fusco una trasposizione visiva e mentale di grande impatto simbolico. Il regista, con intelligenza quasi scultorea, plasma la tragedia come un thriller arcaico: i personaggi si muovono come ciechi nel buio della conoscenza, ognuno portatore di una verità parziale, contaminata, insidiosa. La polis tebana non è solo città della peste, ma spazio mentale contaminato dal rimosso e dal rifiuto della verità. L’oracolo delfico aleggia come maledizione e come struttura narrativa: è la profezia che orchestra gli eventi, l’invisibile burattinaio che tesse le fila del disastro. Il destino, così, non è forza esterna, ma grammatica segreta dell’essere, linguaggio antico che l’uomo non sa più decifrare. La scenografia di Marta Crisolini Malatesta si configura come un paesaggio mentale, più che fisico: una struttura astratta e geometrica che trasforma la scena in uno spazio dell’inconscio. Il grande schermo ottagonale al centro, cuore visivo dell’allestimento, agisce come soglia simbolica dove scorrono proiezioni visive — volti, sdoppiamenti, frammenti — che restituiscono le ossessioni interiori del protagonista. Le gradinate simmetriche e i personaggi disposti come figure archetipiche accentuano l’idea di un tribunale interiore, mentre luci taglienti e ambienti spogli costruiscono una drammaturgia visiva fondata sull’ambivalenza e sulla rifrazione simbolica. I personaggi non entrano, ma affiorano come apparizioni della mente: Giocasta, Tiresia, Creonte sono presenze ambigue, sospese tra ruolo e mito. In questo impianto, la scena diventa dispositivo conoscitivo e proiezione del trauma, più analitico che narrativo, più freudiano che sofocleo. E tuttavia, proprio in questa modernizzazione psicoanalitica, si conserva – paradossalmente – la più autentica grecità del testo: perché la tragedia attica non è mai spiegazione, ma interrogazione perpetua. L’enigma della Sfinge, risolto da Edipo, non è altro che il preludio al vero enigma: chi siamo noi? qual è il prezzo della conoscenza? Edipo risponde con la cecità, atto estremo che trasforma il vedere nel suo contrario e fa della luce uno scandalo insopportabile. Luca Lazzareschi, interprete di Edipo, Tiresia, Servo di Laio, regge il ruolo con misura e febbre. La sua parola è scultorea, salmodiata quasi, eppure attraversata da tremiti: in lui convivono il sovrano e il mendicante, l’investigatore e il colpevole. La sua caduta non è solo fisica, ma soprattutto ontologica: da garante della verità a mostro della verità. Accanto a lui, la Giocasta di Manuela Mandracchia è di una potenza dolorosa: mai solo figura tragica, ma donna spezzata tra eros e paura, madre inconsapevole e compagna straziata. Paolo Serra presta il corpo ieratico e inquietante a Creonte, mentre Francesco Biscione, Paolo Cresta e Alessandro Balletta, rispettivamente Sacerdote Corifeo, Nunzio Corifeo e Messo Corifeo, compongono un coro frammentato e necessario, presenza evocativa e specchio della coscienza collettiva. I movimenti coreografici, gli apparati sonori e le pause millimetriche disegnano uno spazio sacrale, un coro muto che pulsa con la tensione dei misteri eleusini. De Fusco non cerca attualizzazioni banali né parabole civili: il suo Edipo è atemporale, quasi extracronico. Ed è proprio in questa astrazione che il mito si rinnova, e continua a parlare. Se Edipo è figura fondante della modernità, non lo è perché simbolo della colpa originaria, ma perché uomo che osa interrogare, che lotta contro l’oscurità, e infine si acceca – non per punirsi, ma per vedere oltre. In questo senso, Edipo Re è davvero uno dei pochi testi che non smettono mai di accadere. E De Fusco, con intelligenza e rigore, ha saputo farne ancora una volta specchio del nostro tempo. Un tempo, come quello di Tebe, in cui l’epidemia non è fuori, ma dentro. Photocredit Claudia Pajewski
Napoli, MANN
Museo Archeologico Nazionale di Napoli
DOMUS. GLI ARREDI DI POMPEI
Curato da Massimo Osanna, Andrea Milanese, Ruggiero Ferrajoli e Luana Toniolo
Napoli, 30 giugno 2025
«Domus est enim unus locus ad homines perfugium, ornamenta autem animi speculum sunt.» (Cicerone, De Officiis, I, 39)
Nel paradigma urbano romano, la “domus” si configura non solo come spazio funzionale, ma come architettura simbolica, centro identitario e palinsesto della memoria individuale e familiare. Il nuovo allestimento permanente Domus. Gli arredi di Pompei presso il Museo Archeologico Nazionale di Napoli offre una lettura articolata di questo tema attraverso l’esposizione di oltre duecentocinquanta reperti – mobili, suppellettili, decorazioni, affreschi e sculture – che documentano la complessità dell’abitare vesuviano tra I secolo a.C. e I secolo d.C. Curato da Massimo Osanna, Andrea Milanese, Ruggiero Ferrajoli e Luana Toniolo, il progetto si propone di restituire un’immagine stratificata e immersiva della casa pompeiana, affermando il valore degli oggetti non solo come testimonianze materiali, ma come elementi attivi nella costruzione del tessuto sociale romano. L’esposizione si articola in cinque sale al secondo piano del museo, secondo un percorso che procede per nuclei tematici e tipologici, a partire da una sezione immersiva introduttiva ispirata alla Casa del Fauno, dove, attraverso strumenti digitali, viene presentata la logica distributiva della domus e il rapporto tra architettura, uso degli spazi e ritualità domestiche. Il valore simbolico della domus si esprime pienamente nella selezione di arredi presentati: sedute, panche, letti, tavolini con monopodi decorati, ma anche oggetti funzionali come bracieri, scaldavivande, lucerne e candelabri. L’accurata campionatura tipologica consente di comprendere il carattere composito della cultura materiale pompeiana, che fonde artigianato, tecnica e arte secondo logiche decorative ispirate al mondo ellenistico, recepito e rielaborato nella forma dell’abitare romano. La varietà dei materiali impiegati – bronzo, marmo, legno, terracotta – e la qualità esecutiva di molti pezzi riflettono un gusto maturo, volto tanto all’ostentazione sociale quanto al piacere estetico. Tra i pezzi di maggior rilievo si segnala un braciere monumentale rettangolare, finemente decorato con inserti in rame, stagno e ottone, la cui resa plastica e cura del dettaglio evidenziano la centralità del fuoco nei contesti domestici, non solo per il riscaldamento e la cottura dei cibi, ma anche quale polo simbolico della convivialità. A esso si affianca un portalucerne ageminato in rame e argento, impreziosito da una composizione scultorea con un giovane Dioniso in groppa a una pantera, associata a una piccola ara. L’iconografia dionisiaca, diffusa nei triclinia pompeiani, rivela la compenetrazione tra funzione utilitaria e allusione mitologica nei contesti della domus. L’allestimento accoglie inoltre un raffinato tavolino pieghevole dotato di un meccanismo di chiusura e trasporto, che documenta soluzioni mobili e trasformabili per l’organizzazione flessibile degli ambienti, e un tavolino con monopodio a sfinge, la cui decorazione include il busto di Atena, mostrando la penetrazione di temi iconografici greci nella plastica domestica di età imperiale. Le testimonianze più esplicitamente figurative sono rappresentate da sculture e pitture murali. Di particolare interesse è una statua di Apollo citaredo, derivata da modelli greci di età classica, il cui valore all’interno della casa superava il semplice ornamento per assumere significato culturale e identitario. Le pareti affrescate della villa di Numerio Popidio Floro, recentemente restaurate e reinserite in pareti museali appositamente progettate, restituiscono l’ambiente decorativo originario come “sfondo attivo” dell’arredo. Le scene pittoriche, rinnovate nei colori e nelle definizioni, rientrano così nella narrazione del vivere quotidiano, anziché isolarsi come opere a sé stanti. Particolare attenzione è dedicata anche alla cosiddetta Sala dei Grifi, in cui sono esposti arredi ottocenteschi ispirati a modelli pompeiani. Realizzati nel 1870 per volontà di Giuseppe Fiorelli, all’epoca direttore del museo e degli scavi, questi oggetti – panche, tavoli, supporti – rivelano non solo il gusto revivalista dell’epoca, ma anche la fortuna ottocentesca del modello domestico antico nella museografia moderna. La sala include anche una copia del celebre Narciso di Vincenzo Gemito e una selezione di materiali grafici (acquerelli, incisioni, fotografie) che illustrano la ricezione visiva della Pompei moderna. Il percorso espositivo si chiude con una riflessione metodologica sul ruolo del museo come dispositivo narrativo. Contestualmente all’inaugurazione della sezione Domus, è stato infatti presentato un nuovo impianto di illuminazione per le sale dedicate agli affreschi pompeiani, realizzato in collaborazione con ERCO. Il progetto garantisce una migliore resa cromatica e percettiva delle superfici pittoriche, promuovendo una lettura integrata tra luce, spazio e contenuto figurativo. Questa iniziativa si inserisce nel più ampio processo di rinnovamento del Museo Archeologico Nazionale di Napoli, che prevede anche il riallestimento delle sale della Villa dei Papiri, con l’obiettivo di restituire coerenza e fluidità alla narrazione del mondo vesuviano. In tal senso, l’allestimento di Domus rappresenta non solo una mostra permanente, ma un dispositivo critico, capace di trasformare la cultura materiale in strumento di conoscenza storica e antropologica. La domus pompeiana, come emerge da questa proposta espositiva, si rivela essere uno specchio fedele del mondo romano: nei suoi arredi e nei suoi decori si riflettono non solo il gusto e il lusso, ma anche le tensioni sociali, i modelli culturali, le aspirazioni politiche. In essa convivono funzione e retorica, necessità e rappresentazione. E proprio nella casa, come luogo del quotidiano e della memoria, l’archeologia trova uno dei suoi spazi più fertili per narrare, con rigore e immaginazione, la vita degli antichi.
Il Teatro del Maggio Musicale Fiorentino annuncia la prossima stagione 2026 e l’88esima edizione del Festival Maggio Musicale: dodici titoli d’opera – in un arco temporale dal barocco al contemporaneo, con una nuova commissione – 2 cicli sinfonici diretti dal Direttore musicale Daniele Gatti, numerosi concerti sinfonici e sinfonico-corali con le numerose presenze di Zubin Mehta che nel 2026 festeggerà i suoi 90 anni, due balletti e gli spettacoli per le famiglie e le scuole. Tosca, Pagliacci in dittico con Cavalleria Rusticana, Il castello di Barbablù in dittico con La voix humaine, The Death of Klinghoffer titolo inaugurale del Festival.
Un ballo in maschera, Giulio Cesare, Wozzeck, Romanzo criminale, Simon Boccanegra, Les contes d’Hoffmann sono i titoli d’opera che compongono la stagione lirica e il Festival. Il versante sinfonico e sinfonico corale mette in cartellone il ciclo dedicato alle nove sinfonie di Ludwig van Beethoven e il ciclo dedicato a Felix Mendelssohn che sono affidati a Daniele Gatti, Direttore musicale del Maggio, ruolo che assumerà ufficialmente a partire dal Festival.
In allegato tutti i dettagli della stagione 2026
Martedì 1 luglio
Ore 17.35
“ECUBA”
Musica Nicola Antono Manfroce
Direttore Sesto Quatrini
Regia Pier Luigi Pizzi
Interpreti: Lidia Fridman, Norman Reinhardt, Mert Süngü, Roberta Mantegna, Martina Gresia.
Mercoledì 2 luglio
ore 17.28
“SALOME”
Musica Richard Strauss
Direttore Franz Welser-Möst
Regia Romeo Castellucci
Interpreti: John Daszak, Anna Maria Chiuri, Asmik Grigorian, Gabor Bretz, Julian Prégradien…
Salisburgo, 2018
Venerdì 4 luglio
Ore 17.20
“ORFEO ED EURIDICE”
Musica Christoph Willibald Gluck
Direttore Antonello Manacorda
Regia Damiano Michieletto.
Interpreti: Raffaele Pe, Nadja Mchantaf, Susan Zarrabi, Josefine Mindus
Spoleto, 2024
Sabato 5 luglio
Ore 09.50
“LE COMTE ORY”
Musica Gioachino Rossini
Direttore Diego Matheuz
Regia Hugo De Ana
Interpreti: Juan Diego Flórez, Andrzej Filonczyk, Nahuel Di Pierro, Julie Fuchs, Monica Bacelli.
Pesaro, 2022
Domenica 6 luglio / Sabato 12 luglio
Ore 10.00 / 10.00
“IL TROVATORE”
Musica Giuseppe Verdi
Direttore Arturo Basile
Regia Margherita Wallmann
Interpreti: Antonietta Stella, Carlo Bergonzi, Adriana Lazzarini, Piero Cappuccilli….
RAI, 1966
Martedì 8 luglio
Ore 17.40
“LA GIOCONDA”
Musica Amilcare Ponchielli
Direttore Donato Renzetti
Regia Pier Luigi Pizzi
Interpreti: Andrea Gruber, Marco Berti, Alberto Mastromarino, Ildiko Komlosi, Elisabetta Fiorillo…
Mercoledì 9 luglio
Ore 18.00
“CAVALLERIA RUSTICANA”
Musica Pietro Mascagni
Direttore Zhang Jiemin
Regia Maurizio Scaparro
Interpreti: Ildiko Komlosi, Sung Kyu Park, Marco Di Felice, Barbara Di Castri, Cinzia Di Mola
Venerdì 11 luglio
Ore 17.30
“RIGOLETTO”
Musica Giuseppe Verdi
Direttore Daniele Gatti
Regia Damiano Michieletto
Interpreti: Ivan Ayon Rivas, Roberto Frontali, Rosa Feola, Riccardo Zanellato, Martina Belli…
Roma, GnamC
Galleria Nazionale di Arte Moderna e Contemporanea
YOKTUNUZ di Ahmet Güneştekin
Il progetto curatoriale di Sergio Risaliti e Paola Marino
con la direzione organizzativa di Angelo Bucarelli
Roma, 30 giugno 2025
La mostra YOKTUNUZ di Ahmet Güneştekin alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea non si limita a essere un’esposizione: è una detonazione silenziosa nel cuore dell’istituzione, una scultura ambientale di memoria e trauma che si insinua nella retorica museale come una scheggia infetta. Per questo, non stupisce che a dare scandalo non siano stati i contenuti, le allusioni storiche, le tensioni politiche, ma, con una comicità involontaria degna della migliore farsa italiana, “l’odore”. Sì, l’odore. Perché l’arte, nel 2025, infastidisce quando non è più inodore, quando sottrae il visitatore alla comfort zone dell’estetica climatizzata e lo costringe a percepire, anche solo per un istante, l’esistenza di un reale in decomposizione. Le scarpe nere che compongono Picco di Memoria, uno degli interventi più radicali della mostra, hanno suscitato un coro di lamentele: personale del museo con mascherine, guide turistiche infastidite, comunicati sindacali, richieste di ispezione da parte della ASL. Eppure l’opera non ha fatto altro che portare nella GNAM la fisicità di ciò che la cultura visiva tende a espellere: il corpo senza estetica, la materia senza epurazione, l’assenza che non sa farsi bella. Ahmet Güneştekin, artista turco di origine curda, da anni lavora su un’estetica della perdita che non consola, ma denuncia. Le sue opere non illustrano un messaggio, lo incarnano. Non si accontentano di evocare: insorgono. E se l’arte, come ci ha insegnato una lunga genealogia novecentesca da Artaud a Beuys, è anche disfunzione, allora la puzza — sì, la puzza — è l’eccesso simbolico che rivela la distanza tra rappresentazione e realtà. Perché la deportazione non sa di lavanda, la prigione non sa di incenso, il genocidio non ha l’odore del deodorante per ambienti. In un’epoca in cui anche l’estetica della catastrofe è stata deodorata per renderla vendibile, Güneştekin riconsegna al museo ciò che il museo aveva sterilizzato: il corpo politico dell’arte. Ma non si cada nella trappola del fraintendimento. YOKTUNUZ non è una mostra “odorosa”, è una mostra densa. Non si esaurisce in Picco di Memoria, né si riduce alla polemica. Lungo il percorso espositivo si succedono opere monumentali che interrogano la forma attraverso il trauma, il colore attraverso il lutto, la materia attraverso la storia. Le sculture totemiche, le superfici metalliche ossidate, i pattern visivi che richiamano una ritualità pan-mediterranea de-territorializzata eppure ostinatamente orientale, disegnano una mappa mentale della resistenza. Non una resistenza armata, ma plastica. Non un discorso sulla libertà, ma un corpo a corpo con l’oblio. Nel cuore stesso del museo — spazio consacrato alla costruzione dell’identità nazionale post-unitaria — Güneştekin inocula una forma di iconoclastia sottile ma virale. Le sue opere non si limitano a esistere: infestano. Non cercano il confronto con la collezione permanente, la mettono in crisi. Accanto al marmo canoviano di Ercole e Lica, l’installazione YOKTUNUZ erige un contro-monumento all’assenza. Lì dove Canova esalta l’eroismo neoclassico, Güneştekin espone il vuoto lasciato dai vinti della Storia. È un sabotaggio silenzioso, una contronarrazione in forma di materia bruciata e peso inelaborabile. La mostra si muove come un rito laico, in cui il sacro non è più verticale ma orizzontale. È inciso nella pelle delle cose, stratificato nella materia. Non c’è ieraticità, ma febbre. Non c’è contemplazione, ma esposizione. Ogni opera è un gesto di insubordinazione simbolica: il ferro ossidato, le stratificazioni cromatiche esasperate, il ritmo ossessivo delle forme non parlano all’occhio, ma al nervo. La mostra non vuole piacere, vuole restare. Non chiede consenso, ma attenzione. In un sistema dell’arte in cui il politically correct e il decorativismo spirituale anestetizzano tutto, Güneştekin scompagina il canone con una brutalità necessaria. Le figure che emergono dalle sue opere non sono personaggi ma presenze. Né figurative né astratte, né mitiche né storiche: sono proiezioni liminari, archetipi contaminati da secoli di violenza e oblio. Non raccontano una storia, ma ne portano i resti. Non sono icone, ma sintomi. Il loro corpo non è costruito per essere visto, ma per essere percepito. L’esilio non è un tema, ma un paesaggio affettivo in cui lo spettatore viene costretto a camminare senza mappe. Ogni opera è una ferita che si rifiuta di rimarginarsi, un palinsesto di omissioni e sopravvivenze. È qui che l’intervento di Güneştekin tocca il punto più alto della sua efficacia: YOKTUNUZ non è una mostra sulla memoria, ma un dispositivo che attiva la rimozione. Non dice, ma evoca. Non rappresenta, ma presenta. L’assenza non viene tematizzata, viene resa corpo, ingombro, materia. L’arte torna a essere presenza ingombrante nel museo, che da dispositivo di celebrazione si trasforma in teatro dell’interrogazione. Chi ha diritto a essere esposto? Quale dolore è ammesso? Chi può permettersi di non piacere? La reazione al tanfo delle scarpe, allora, non è che il sintomo di un disagio più profondo. Il disagio di un sistema culturale che ha smesso di tollerare l’eccesso, che si rifugia nel decoroso e che scambia il gradevole per il giusto. Güneştekin, con sarcastica lucidità, lo ha capito meglio di chiunque altro. “La morte non profuma”. Non è una battuta. È un assioma critico. È il rovesciamento di una civiltà museale che pretende di piangere senza sporcarsi, di ricordare senza toccare, di celebrare senza compromettersi. Ecco allora il paradosso. Il vero scandalo non è l’odore. Il vero scandalo è che ci sia ancora un artista capace di disturbare. Che YOKTUNUZ riesca a farlo senza effetti speciali, senza tecnologia immersiva, senza slogan, ma solo con materia, forma e insistenza, è il suo merito più grande. In un panorama espositivo che scivola sempre più nel simulacro, Güneştekin ha restituito al museo la sua funzione primaria: essere luogo di discontinuità, di frizione, di vertigine. Per chi cerca l’arte che consola, c’è sempre la sala accanto. Per chi ha ancora bisogno di un’arte che brucia, YOKTUNUZ resta lì, nella sua stanza secondaria, a ricordare che l’assenza, quando prende forma, non chiede permesso. E non ha bisogno di profumare.
Venezia, Teatro La Fenice, Stagione Sinfonica 2024-2025
Orchestra del Teatro La Fenice
Direttore Ivor Bolton
Soprano Francesca Aspromonte
Tenore Juan Sancho
Basso Luca Tittoto
Igor Stravinskij: “Pulcinella”, balletto in un atto per piccola orchestra con tre voci soliste su musiche di Giovanni Battista Pergolesi; Felix Mendelssohn Bartholdy: Sinfonia n. 3 in la minore op. 56 “Scozzese”
Venezia, 27 giugno 2925
Le impressioni suscitate nel rispettivo autore da un soggiorno in terra straniera si rispecchiano in entrambe le composizioni – pur così distanti tra loro quanto a stile e contesto storico-culturale di riferimento –, che costituivano il programma del recente concerto, che vedeva Ivor Bolton sul podio dell’Orchestra del Teatro La Fenice e la partecipazione del soprano Francesca Aspromonte, del Tenore Juan Sancho e del Basso Luca Tittoto. Nel caso di Stravinskij, l’ispirazione per Pulcinella fu influenzata da un suo soggiorno napoletano. Sceso in Italia nel 1917 dalla Svizzera in cui allora risiedeva, l’artista di Oranienbaum si recò insieme alla compagnia di Diaghilev – i celebri Ballets russes – a Roma, dove l’impresario debuttava con Les femmes de bonne humeur, un balletto basato su alcune sonate di Domenico Scarlatti – orchestrate per l’occasione – con la coreografia di Leonide Massine. L’anno successivo, il successo riportato, anche con la complicità di Scarlatti, spinse Diaghilev a commissionare a Stravinskij – nel frattempo impostosi autorevolmente con l’Histoire du soldat – un nuovo balletto basato su musiche di un altro celebre italiano: Giovan Battista Pergolesi. A questo proposito, il compositore russo ebbe a confessare che mentre delineava il suo Pulcinella era ancora suggestionato da un episodio, accaduto quando nel 1917 soggiornava a Napoli, durante il quale aveva assistito, in una sala maleodorante – insieme a Picasso, incaricato poi di ideare le scene e i costumi del balletto ‘pergolesiano’ –, a una rappresentazione buffa, in cui la maschera partenopea per eccellenza si lasciava andare a movenze e parole lascive. Ad un altro soggiorno rimanda, fin nel titolo, la sinfonia n. 3 il la minore “Scozzese” di Felix Mendelssohn Bartholdy. Il compositore, nel 1829, visitò la Scozia insieme all’amico di famiglia Carl Klingemann, rimanendo particolarmente impressionato dall’Holyrood Palace e da altri luoghi legati a Maria Stuarda, fra cui le rovine della cappella, dove la sventurata regina fu incoronata: proprio qui ebbe l’ispirazione per l’inizio della “Sinfonia scozzese”, il cui primo tempo sarebbe stato abbozzato due anni dopo durante il suo soggiorno romano – insieme allo schizzo della Sinfonia “Italiana” –, per essere completamente sviluppato solo un decennio dopo (l’ambiente romano contrastava troppo rispetto al brumoso paesaggio scozzese). Questa la genesi dell’ultimo dei cinque lavori sinfonici del compositore – anche se complesse vicende editoriali hanno portato a un ordine di pubblicazione diverso –, che rappresenta la risposta matura di Mendelssohn all’esigenza di rinnovamento della sinfonia dopo il sommo esempio di Beethoven, che aveva reso il genere sinfonico veicolo di forti tensioni ideali. La sensibilità romantica spinse il compositore a trovare la giusta soluzione del problema anche creando una dimensione paesaggistica, naturalistica, peraltro senza ricorrere ad approcci descrittivi o folcloristici, bensì rievocando atmosfere e impressioni del viaggio giovanile, in un continuum narrativo e concettuale, che dà unità ai quattro movimenti, concepiti per essere eseguiti senza cesure. Di grande impatto armonico e timbrico è risultata l’esecuzione di Pulcinella, “Ballet avec chant” composto tra il 1919 e il 1920 ed eseguito per la prima volta il 15 maggio 1920 a Parigi sotto la direzione di Ernest Ansermet con le coreografie di Léonide Massine e i costumi e le scene di Pablo Picasso. Tutte le sezioni come i singoli strumenti dell’Orchestra, guidati dal gesto di icastica chiarezza del maestro Bolton, hanno brillantemente affrontato questa impervia partitura, in bilico tra Settecento e Novecento, dove Pergolesi e Stravinskij risultano complementari: rimangono le linee melodiche dei brani utilizzati al pari dei bassi, ma l’armonia viene alterata, straniata – “sporcata” come si dice in gergo – con dissonanze e poliarmonie, il ritmo viene sovente spezzato da sincopi e spostamenti di accento, la strumentazione è assolutamente innovativa. Esemplare il contributo dei cantanti, che hanno interpretato con espressività e compostezza stilistica, attenzione al testo e controllo della voce, melodie di carattere, duetti, trii, che costituiscono altrettanti intermezzi all’azione scenica. Intensamente romantica si è rivelata la lettura offerta dal direttore britannico della Sinfonia scozzese, sempre assecondato da una compagine orchestrale perfettamente in sintonia. Grave e solenne è iniziato il primo movimento, Andante con moto, dove oboi, clarinetti, fagotti e corni – tipico impasto timbrico romantico – hanno rievocato, con la sinuosità del fraseggio in tonalità minore, la ricordata visita alla cappella di Maria Stuarda. Un’analoga atmosfera carica di mestizia veniva ribadita dagli archi nell’Allegro un poco agitato con la loro entrata in pianissimo, intonando una variante ornata del tema d’apertura. Dopo il secondo tema – un intermezzo lirico – e l’elaborato sviluppo, passaggi cromatici e forti contrasti – quasi una tempesta – hanno percorso la lunga coda. Un momento magico ci ha sedotto con il Vivace non troppo – premesso al tempo lento –, che ha ricordato un’analoga pagina di A Midsummer Night’s Dream per l’agitazione diffusa, la scrittura trasparente e l’intreccio delle voci strumentali; suggestivo il clarinetto nell’iniziale motivo pentatonico, tipico della cornamusa, come il conclusivo pianissimo. Un recitativo dei violini ha immesso nell’Adagio, una delle pagine più suggestive di Mendelssohn, in cui una melodia innodica, resa con struggente espressività, ha trovato un netto contrasto in un secondo tema in minore, quasi una marcia funebre, esposta con accorato accento dai fiati. Grande forza drammatica ha caratterizzato il conclusivo Allegro vivacissimo – aperto da uno scoppio folgorante e internamente percorso da una straordinaria energia ritmica –, in cui è ritornato il secondo tema del movimento precedente – ma in maggiore – nitidamente scandito dai fiati. La sezione mediana di sviluppo ha messo in luce l’abilità del trattamento contrappuntistico, introducendo la ripresa, cui è seguito il Maestoso in la maggiore, una sorta di corale, una perorazione trionfale, che ha condotto a una trionfale conclusione in forma di apoteosi. Successo pieno.
Roma, Caracalla Festival 205
WEST SIDE STORY
Un nuovo allestimento del Teatro dell’Opera di Roma
Il Teatro dell’Opera di Roma presenta un nuovo, attesissimo allestimento di West Side Story, il capolavoro assoluto del teatro musicale americano, nato dall’idea visionaria di Jerome Robbins, con libretto di Arthur Laurents, musiche di Leonard Bernstein e versi di Stephen Sondheim. Ad accendere la scena sarà la regia di Damiano Michieletto, tra i nomi più acclamati della regia teatrale europea, qui al suo primo incontro con l’iconico musical. La direzione musicale è affidata a Michele Mariotti, Direttore Musicale del Teatro dell’Opera di Roma, che affronta per la prima volta la partitura di Bernstein con il rigore e l’intensità espressiva che ne contraddistinguono lo stile. Le scene sono firmate da Paolo Fantin, i costumi da Carla Teti, le luci da Alessandro Carletti: una squadra creativa affiatata che rinnova il linguaggio visivo della grande Broadway senza tradirne lo spirito. Le coreografie originali, elemento chiave dell’opera sin dalla sua creazione, vengono reinventate da Sasha Riva e Simone Repele, che mantengono la forza cinetica della danza di Robbins, declinandola in una nuova fisicità contemporanea. Tra gli interpreti principali, il tenore Marek Zurowski nel ruolo di Tony e il soprano Sofia Caselli in quello di Maria, coppia tragica che riporta sulla scena l’eco struggente di Romeo e Giulietta in chiave metropolitana. Accanto a loro: Sam Brown (Riff), Sergio Giacomelli (Bernardo) e Natascia Fonzetti (Anita), per un cast che unisce energia giovanile e profonda intensità scenica. In scena, l’Orchestra e il Corpo di Ballo del Teatro dell’Opera di Roma, protagonisti di una produzione che mira a riscoprire il valore drammatico e musicale di uno dei titoli più amati del Novecento. West Side Story è un’opera che non smette di interrogare il nostro presente. Lo scontro tra bande, il razzismo, l’amore come forma di resistenza e la speranza di una riconciliazione che sembra sempre sul punto di sfuggire: sono questi i temi che Michieletto porta alla ribalta con uno sguardo crudo, poetico e attualissimo. Il nuovo allestimento del Teatro dell’Opera di Roma si propone come una vera e propria rinascita del musical nel panorama lirico italiano, con una messinscena che coniuga classicità e innovazione, tradizione americana e sensibilità europea. Una grande storia d’amore e violenza, suonata, cantata e danzata dal vivo. Un racconto che, ancora oggi, dopo oltre sessant’anni dal debutto, continua a parlare a tutte le generazioni. Un evento imperdibile, per riscoprire la potenza del teatro musicale nella sua forma più completa. Qui per tutte le informazioni.
Disc 1: ‘Scapegoat’ (Piano Concerto No. 1) (1963); Piano Concerto No. 3 (1968).
Disc 2: Piano Concerto No. 2 (1964 orch. 1965); Piano Concerto No. 4 (1970). Martin Roscoe (pianoforte). Kathryn Stott (pianoforte). BBC Philharmonic. London Symphony Orchestra. George Lloyd (direttore). Registrazione: Manchester, 20 e 21 Ottobre 1990 (‘Scapegoat’ Concerto No. 1 e Concerto No. 2); Manchester, 25 e 26 Settembre 1988 (Concerto No. 3). Londra, 9 e 10 Febbraio 1984 (Concerto No. 4). T. Time: 73′ 49″ (Cd 1). 70′ 30″ (Cd 2). 2 CD Lyrita SRCD. 2421
È sempre di grande interesse una proposta discografica nella quale il compositore è anche interprete, in quanto ci mette di fronte ad un’esecuzione realizzata seguendo perfettamente le intenzioni di chi ha concepito quella musica. Questa situazione è certo possibile per i grandi compositori del Novecento, tra i quali va sicuramento ascritto il britannico George Lloyd, che, nato nel 1913, sin dalla più tenera età, ha respirato un’atmosfera musicale nella sua famiglia, essendo il padre un flautista dilettante, mentre la madre sapeva suonare il violino, la viola e il pianoforte. Musicista precoce, Lloyd iniziò a comporre sin dall’età di 9 anni e, dopo aver studiato contrappunto con C. H. Kitson e composizione con Harry Farjeon, conseguì una certa fama a livello nazionale con la sua prima opera Iernin (1933-1934) che ottenne un grande successo che si ripeté anche con la seconda The Serf, rappresentata per la prima volta al Convent Garden il 20 ottobre 1938. Purtroppo lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale bloccò l’attività musicale di Lloyd che fu vittima anche di un incidente dalle cui conseguenze si riprese grazie alle amorevoli cure della moglie. Riprese a comporre anche se la sua musica tonale, agli inizi, non fu più accettata in un contesto musicale totalmente cambiato che aveva nei principi delle neoavanguardie i suoi fondamenti. Solo negli anni Settanta ritornò popolare quando molte sue partiture furono accettate per essere registrate e trasmesse dalla BBC. Nella sua vasta produzione rivestono una certa importanza i concerti per pianoforte e orchestra, composti da Lloyd, che era violinista di formazione, nonostante la sua scarsa inclinazione per questo strumento, su suggerimento della moglie Nancy. Fu proprio lei a spingere il marito a scrivere il Primo concerto (‘Scapegoat’) per il quale Lloyd si ispirò al pianismo di John Ogdon, che aveva avuto modo di ascoltare alla Radio. Eseguito per la prima volta, il 24 ottobre 1964 a Liverpool, il concerto è una poderosa struttura in un solo movimento, ma in cinque ampie sezioni, il cui titolo “capro espiatorio” fa riferimento alle tante vittime dei feroci eventi del Novecento e che musicalmente si basa su tre temi principali. Simile al primo, essendo anch’esso in un unico grande movimento, è il Concerto n. 2, composto nell’inverno del 1963 e orchestrato durante l’estate del 1968, ma eseguito per la prima volta il 23 maggio 1984 con Martin Roscoe al pianoforte. Anche alla base di questo concerto vi sono delle immagini di guerra, ma questa volta ad essere ritratta la mefistofelica cattiveria gioiosa degli oppressori dal momento che si ispira a una fotografia circolata nella stampa hitleriana, nella quale si vedeva in apparenza il dittatore danzare una giga alla notizia della caduta della Francia nel 1940. Con il Concerto n. 3, composto tra il 1967 e il 1968 e presentato per la prima volta in una registrazione della BBC con Kathryn Stott in qualità di solista, e il Concerto n. 4, composto tra il gennaio e il mese di aprile del 1970, ma orchestrato durante l’estate del 1983 ed eseguito per la prima volta il 7 febbraio sempre con Kathryn Stott al pianoforte, Lloyd ritornò alla tradizionale forma in tre movimenti. In questa sede, essendo praticamente impossibile qualsiasi commento a livello interpretativo, essendo protagonisti in qualità di interpreti il compositore nelle vesti di direttore, ed, eccezion fatta per il primo Concerto, qui eseguito da Martin Roscoe, i primi interpreti (Kathryn Stott per il terzo e il quarto e lo stesso Roscoe per il secondo), va segnalato il valore storico di questa incisione che ci permette di apprezzarle secondo le intenzioni di Lloyd.
La cantata Gott, man lobet dich in der Stille, BWV 120, fu scritta per l’annuale elezione del consiglio comunale di Lipsia. Non si sa con precisione quando sia stata composta; alcune parti potrebbero risalire al periodo di Còthen. Sicuramente è stata utilizzata come base per la cantata nuziale C 120a verso la fine degli anni 1720, anche se quest’opera non si è conservata intatta. La cosa che appare “anomala” di questa partitura è legata alla pagina iniziale. Ci si chiede coma mai Bach abbia optato di aprire una partitura celebrativa, solenne, con un’aria piuttosto pacata. Se guardiamo però il testo questo parla der Stille zu Zion, una dichiarazione di lode che attende Dio nella quiete di Sion. La sensibilità di Bach per il testo: “Silenzio” espresso in un’aria assai ampia per esprimere le accogliere varie sfumature di questa frase. Il concetto di “quiete” è sicuramente meglio espresso da un’aria che racchiudesse. Un coro non avrebbe potuto raggiungere questa essenza.
Si rientra nella solennità con il brillante Coro che segue (Nr.2) con trombe e timpani. Si tratta dell’unico movimento concertato completamente originale ma che ritroveremo circa dieci anni dopo come movimento “Et expecto” nella Messa in si minore. Il recitativo “secco” del basso (Nr.3) con il riferimento alla città dei tigli colloca certamente la cantata nel suo contesto di Lipsia. Il testo che acclama Dio come “nostro protettore” e il “nostro governo è estensione della Sua autorità è trattato da Bach in tono “minore appropriato alla serietà del discorso pronunciato. Al centro della partitura la bellissima aria cantata dal soprano (Nr.4), è un ulteriore appello affinché la salute e la benedizione assistano il governo, in modo che la giustizia e la fede possano seguirlo. Spicca il violino obbligato che si esprime in ricche ornamentazioni senza mai essere invadente. L’ultimo recitativo, questa volta “accompagnato” (Nr.4) affidato al tenore mette ancora una volta la cura l’attenzione di Bach verso i dettagli anche su testi banali, ripetitivi. Iniziando con un intervallo ascendente, presumibilmente un suggerimento della posizione elevata del Signore, il tenore chiede la sua consacrazione e la sua benedizione. Appare una rapida immagine della malvagità che fugge da noi (battute 3-4) e, come nel primo recitativo, c’è un ammorbidimento della linea alla citazione del Padre (battuta 6). Il cantante è spinto verso il registro acuto, esprimendo la fiducia con cui siamo tenuti a glorificare il Suo nome benedetto. La cantata si conclude con il Corale (Nr.5), una versione della terza parte del Te Deum tedesco. In chiesa sarebbe stata cantata dal coro e dalla congregazione a frasi alternate. Si può ipotizzare che i partecipanti alla cerimonia di insediamento dei nuovi membri del consiglio si siano uniti al coro di Bach. L’impostazione di Bach è semplice e in gran parte omofonica, ma Bach fa in modo di terminare tutte le otto frasi, tranne una, su accordi maggiori, un possibile simbolo dell’ottimismo che circonda l’evento celebrato. Le parole sono una preghiera affinché Cristo, dal cui sangue siamo redenti, ci salvi, ci benedica, ci curi e ci accudisca, per poi elevarci all’eternità.
Nr.1 – Aria (Contralto)
O Dio, a te si deve la lode in Sion,
a te si sciolgono i voti.
Nr.2 – Coro
Esultate, voci gioiose,
salite sino al cielo!
Lodate Dio nel suo santuario
ed esaltate la sua gloria;
la sua bontà,
la sua misericordia
non avranno mai fine!
Nr.3 – Recitativo (Basso)
Sù, cara città dei tigli,
vieni, inchinati dinanzi all’Altissimo,
riconosci come
nella tua bellezza e nel tuo splendore
con amore paterno
Egli ti ha protetto, conservato, salvato
ponendo la sua amorevole mano
costantemente sopra di te.
Andiamo,
scogli i voti che ha fatto all’Altissimo,
e intona canti di ringraziamento e umiltà!
Vieni, prega che il paese e la città
siano sempre più confortati da Lui,
e che queste valorose autorità
che oggi rinnovano la loro elezione
siano rivestite di molte benedizioni!
Nr.4 – Aria (Soprano)
Salvezza e benedizione
devono e dovranno sempre
prosperare sull’autorità
nell’abbondanza desiderata
così che giustizia e lealtà
possano baciarsi fraternamente.
Nr.5 – Recitativo (Tenore)
Ora Signore consacra questo governo
con la tua benedizione,
in modo che ogni male sia allontanato
e la giustizia possa fiorire nelle nostre case,
così come la pura discendenza del tuo Padre
ed il tuo nome benedetto
siano glorificati in mezzo a noi!
Nr.6 – Corale
Ora Signore aiuta noi, tuoi servi,
che hai redento con il tuo sangue!
Lasciaci un posto in cielo
con i Santi nella salvezza eterna!
Aiuta il tuo popolo, Signore Gesù Cristo,
e benedici la tua discendenza;
prenditi cura di essa sempre
e innalzala per l’eternità!
Traduzione Emanuele Antonacci
Torino, Teatro Regio Stagione d’opera 2024 – 2025
“ANDREA CHÉNIER”
Dramma di ambiente storico in quattro quadri su libretto di Luigi Illica.
Musica Umberto Giordano
Andrea Chénier ANGELO VILLARI
Carlo Gérard ALEKSEI ISAEF
Maddalena di Coigny VITTORIA YEO
La mulatta Bersi ALBINA TONKIKH*
La Contessa di Coigny FEDERICA GIANSANTI
Madelon MANUELA CUSTER
Roucher ADRIANO GRAMIGNI
Pietro Fléville NICOLO’ CERIANI
Fouquier Tinville NICOLO’ CERIANI
Il sanculotto Mathieu VINCENZO NIZZARDO
Un “Incredibile” RICCARDO RADOS
L’Abate DANIEL UMBELINO*
Il maestro di Casa IVAN SHCHERBATYKH
Dumas TYLER ZIMMERMAN*
Schmidt JANUSZ NOSEK
Una Pescivendola LYUDMYLA PORVATOVA
Lando Fiorinelli (clavicembalista) ANDREA MAURI
*Artista del Regio Ensemble
Orchestra e Coro del Teatro Regio di Torino
Direttore d’Orchestra Andrea Battistoni
Maestro del coro Ulisse Tabacchin
Regia Giancarlo del Monaco
Scene Daniel Bianco
Costumi Jesus Ruiz
Luci Vladi Spigarolo
Coreografia e Assistente alla regia Barbara Staffoni
Nuovo allestimento del Teatro Regio di Torino
Torino, 25 giugno 2025.
Le recite torinesi di Andrea Chénier contano tutte di un’eccellente prestazione musicale e vocale ma, nel contempo, soffrono di un inaccettabile percorso temporale e di una regia contradditoria. Tre intervalli di mezz’ora, inseriti tra “quadri” di ugual durata, sono oggettivamente intollerabili, in sala, la lamentela è diffusa e condivisa. L’effettiva durata musicale dello Chénier è di circa due ore, qui si superano i 200 minuti. Se accettabile nel corso di un festival estivo, dove il pubblico è prevalentemente di vacanzieri, più arduo da giustificarsi in una città in cui, fortunatamente, c’è chi ancora al mattino seguente si deve presentare al lavoro, nelle ore serali poi, i mezzi pubblico di trasporto non sono brillantissimi né per frequenza né per efficienza. Chénier è un racconto di fatti e di sentimenti contestuali alla grande Rivoluzione francese di fine 700, non per questo si è autorizzati a trasformare l’opera in un giudizio morale e storico dei fatti, considerati fortemente negativi, come pare sia l’obbiettivo principale di questa regia. Giancarlo del Monaco, con le scene corrusche e opache di Daniele Bianco e le drammatiche luci di Vladi Spigarolo, ci immerge in un mondo esasperatamente oscuro e violento, popolato da armati che imbracciano kalashnikov e impugnano rivoltelle. Uno sparo è la causa del ferimento di Gerard del secondo atto, un altro il colpo fatale che inopinatamente elimina Bersi. I costumi di Jesus Ruiz vagano dal sovraccarico rococò del primo quadro, al femminile castigato “impero” e al maschile dark leather dei quadri seguenti. Andrea Battistoni, fin dal suo acuto intervento sul magnifico libretto di sala dello spettacolo, riconosce come la musica di Giordano trovi una sua reale consistenza nel lirismo del canto dei personaggi e da questo si sviluppi ed espanda. Fatale eredità per un musicista che cresciuto nel Conservatorio di San Pietro a Majella, porta la melodia del canto apulo-partenopeo nelle vene, nel cuore e nel cervello. Nella spontanea immediatezza del lirismo dell’Improvviso, del Bel dì di Maggio e di Io non ho amato ancor, come nelle “sceneggiate” di Nemico della patria e di Sì fui soldato, nulla si trova del fermento europeo del dopo Wagner, ma si rafforza l’essenza popolare (popolana) verista che diventa marchio dell’opera italiana degli sgoccioli dell’800. L’ottima Orchestra del Teatro Regio e l’altrettanto ottimo Coro del teatro, retto da Ulisse Tabacchin, partecipano alla festa musicale grazie alla coinvolgente irruenza del maestro Battistoni. Questi, se nelle dichiarazioni esalta la preminenza del canto, nei fatti spinge la fossa a un protagonismo sinfonico che sfiora il rischio di quasi ammutolire le voci meno robuste e più carenti di armonici incisivi. D’altro canto, per rivincita, alcune parti orchestrali godono di un rilievo straordinario, quasi protagonistico. I magnifici violoncelli del Regio, nel terzo Quadro, eguagliano in patetismo sia il disperato racconto della Madelon, la bravissima Manuela Custer, sia il pianto che trabocca dalla Mamma Morta di Vittoria Yeo, terza Maddalena di questa produzione torinese. La preparazione e la sicurezza vocale sono, senza dubbio, i maggiori pregi del soprano coreano che, come per molte delle voci orientali, non ha nella rotondità del timbro la sua maggiore attrattiva. Forzatamente civettuola nel primo quadro, convince nella drammaticità dei quadri seguenti. Inappuntabile nella Mamma Morta, vincente nel duetto finale dove i suoi acuti, di donna volitiva, la vincono su uno Chénier a rimorchio. Angelo Villari subisce il duro destino di alternarsi a Gregory Kunde e non sfigurare. Voce di bella comunicativa naturale, si mostra pure assolutamente convincente in scena con doti da attore consumato. Esibisce il bel vigore e la trascinante baldanza del suo registro centrale, si bemolle acuti squillanti se pur con qualche difficoltà di salita e d’approccio. Le quattro “romanze” sono appassionate e di buona tenuta, si meritano quindi l’approvazione del numeroso pubblico della matinée. Il sostegno delle mezzevoci, non sempre sicurissimo, attenua l’efficacia dei colori e la varietà dell’espressione. Il duetto finale sancisce che, nella vicenda, Maddalena domina nell’affrontare la durezza della vicenda e nell’incisività del canto. Aleksei Isaef, come Gérard, si impone con le indubbie e abbondanti doti naturali. Baritono a tutto tondo, rende di Nemico della Patria e di Son sessant’anni o vecchio, attrattive imprescindibili della recita. Si intuisce di come sia così naturalmente istrionico da conquistarsi le simpatie del pubblico fin nel corso della parata finale. Tra le altre voci, comuni a tutte le recite, si fanno citare per rilevanza: il Roucher di Adriano Gramigni, l’Incredibile di Riccardo Rados e il Mathieu di Vincenzo Nizzardo. Appropriata l’elegante Bersi di Albina Tonkikh e l’esuberante Contessa di Coigny di Federica Giansanti. Il numerosissimo pubblico, prevalentemente femminile, pur moderando, con la consueta eleganza subalpina, l’espressione degli apprezzamenti, ha festeggiato la recita in solido con artefici ed esecutori. Battistoni e Isaev i più applauditi.
Roma, Museo dell’Arte Salvata
NUOVI RECUPERI
curata da Alfonsina Russo, Sara Colantonio e Maria Angela Turchetti
Roma, 26 giugno 2025
Ogni civiltà si misura nella sua capacità di custodire la propria continuità materiale, di elaborare le fratture del tempo e di trasformare i residui della storia in strumenti di conoscenza collettiva. In questa prospettiva, la riapertura del Museo dell’Arte Salvata presso l’Aula Ottagona delle Terme di Diocleziano non rappresenta soltanto un evento museografico, bensì una dichiarazione culturale: un atto consapevole di riappropriazione e riflessione sull’identità storica attraverso la tutela dei suoi lacerti dispersi. La mostra inaugurale, significativamente intitolata Nuovi recuperi, è curata da Alfonsina Russo, Sara Colantonio e Maria Angela Turchetti. Essa documenta le principali operazioni di recupero condotte tra il 2022 e il 2025 dal Comando Carabinieri per la Tutela del Patrimonio Culturale, in stretta collaborazione con il Museo Nazionale Romano, il Dipartimento per la Valorizzazione, l’Istituto Centrale per il Restauro e una fitta rete di istituzioni scientifiche e giuridiche. Si tratta, in effetti, di una geografia composita di restituzioni, ricognizioni e negoziati internazionali che mette in scena la dimensione più attiva dell’archeologia come scienza dell’interruzione e della ricomposizione. Il museo riapre con ingresso gratuito fino al 31 agosto, e sarà successivamente incluso nel circuito del biglietto unico del Museo Nazionale Romano. Un dettaglio che conferma la volontà di integrare questa nuova sede in un sistema museale articolato, che riflette topograficamente e concettualmente la stratificazione della capitale. La selezione delle opere esposte si struttura come un corpus di casi esemplari, ognuno dei quali testimonia non solo il valore artistico e storico dei manufatti, ma anche la trama investigativa che ne ha consentito il rientro nel perimetro della legalità e della fruizione pubblica. Si segnala, tra le prime sezioni, la serie di urne etrusche policrome provenienti da Città della Pieve, accompagnate da due sarcofagi e relativi corredi. Si tratta di reperti ricondotti a una necropoli della famiglia Pulfna nel territorio chiusino, trafugati nel corso di scavi illeciti e individuati grazie a un’articolata operazione di indagine coordinata dalla Procura di Perugia, coadiuvata da analisi di immagini, intercettazioni e sorvoli con droni. La restituzione di tali manufatti, databili tra il III e il II secolo a.C., rappresenta uno degli interventi più significativi nella storia recente del recupero archeologico in Italia. Altrettanto rilevante è il rimpatrio di una statua bronzea di età ellenistica, ritrovata in Belgio durante l’operazione “Fenice” del 2023. Il bronzo raffigura un togato maturo, con evidenti caratteri di individualizzazione fisiognomica, e reca un’iscrizione dedicatoria in lingua etrusca. L’opera si inserisce in una tipologia connessa ai bronzi votivi recentemente rinvenuti nel santuario del Bagno Grande a San Casciano dei Bagni, rafforzando ipotesi di continuità artigianale tra diverse aree dell’Etruria interna. Un altro nucleo centrale è costituito dalle lastre ceretane a figure dipinte del VI–V secolo a.C., trafugate da Cerveteri e identificate come parte della medesima serie sequestrata a Ginevra nell’operazione “Antiche dimore” del 2014. La loro ricomparsa a New York e il conseguente sequestro confermano l’efficacia della Banca dati dei beni culturali illecitamente sottratti, oggi affiancata dal sistema S.W.O.A.D.S., piattaforma basata su intelligenza artificiale, che incrocia dati visivi e testimonianze per individuare i flussi illeciti di oggetti archeologici. La mostra restituisce poi una selezione di reperti provenienti da paesi terzi, come Siria, Iraq ed Egitto, in attesa di rimpatrio. Tra essi spicca l’antefissa della Potnia Theron, divinità arcaica legata al mondo selvatico, trafugata dal santuario di Ardea e ritrovata presso l’Israel Museum di Gerusalemme. Il suo ritorno in Italia, sancito nel 2022 da un accordo culturale con il Ministero della Cultura israeliano, rappresenta una tappa simbolicamente densa di una diplomazia culturale fondata sulla reciprocità e sul principio della provenienza lecita. Una sezione di grande impatto etico è quella dedicata alle restituzioni spontanee da parte di cittadini e collezionisti privati. Esemplare in tal senso è il caso delle cinque maschere teatrali marmoree del I secolo d.C., restituite da un collezionista statunitense tramite il Consolato italiano di New York. Si tratta di una forma di collaborazione che testimonia una mutata sensibilità nei confronti della proprietà culturale e delle responsabilità derivanti dalla detenzione di beni di incerta provenienza. Ulteriori capitoli dell’esposizione approfondiscono casi specifici di sequestri internazionali: dalle armature in bronzo e gli elmi magno-greci individuati nelle aste di New York, ai busti terracotte restituiti dal Metropolitan Museum, fino alle placchette in ambra con raffigurazioni mitiche rinvenute nei depositi di un noto antiquario londinese e rimpatriate grazie all’intervento congiunto della magistratura italiana e statunitense. Completa il percorso una raffinata campagna fotografica a cura di Silvana Editoriale, integrata da un catalogo scientifico che raccoglie saggi di archeologi, storici dell’arte, giuristi e restauratori. L’apparato iconografico, volutamente sobrio, evita qualsiasi estetizzazione, prediligendo un registro visivo capace di trasmettere il carattere materico e la dignità originaria dei manufatti. Nel loro insieme, le opere esposte non raccontano solo la storia dell’arte antica, ma restituiscono la densità politica della tutela, il valore simbolico della restituzione, la funzione civile della conservazione. Esse mettono in luce la vulnerabilità strutturale del patrimonio culturale, costantemente esposto a rischi di espropriazione e sottrazione, e al tempo stesso ribadiscono il ruolo attivo dello Stato e dei cittadini nel processo di ricostruzione dell’identità storica. In questo senso, il Museo dell’Arte Salvata non è un semplice luogo espositivo, ma un dispositivo culturale stratificato: laboratorio di etica pubblica, archivio delle fratture, palinsesto della ricomposizione. Qui, la memoria non è solo oggetto da contemplare, ma processo da difendere, riscrivere e condividere. Non una celebrazione del passato, ma un atto di responsabilità verso ciò che ci costituisce.
Roma, Palazzo Bonaparte
ELLIOTT ERWITT. Icons
curata da Biba Giacchetti con l’assistenza tecnica di Gabriele Accornero
prodotta e organizzata da Arthemisia
in collaborazione con Orion57 e Bridge Consulting Pro
Main partner della mostra la Fondazione Terzo Pilastro Internazionale con Fondazione Cultura e Arte e Poema
special partner Ricola
mobility partner Frecciarossa Treno Ufficiale
sponsor tecnico Ferrari Trento
Roma, 27 giugno 2025
«Photography is an art of observation. It’s about finding something interesting in an ordinary place.» (Elliott Erwitt)
C’è un tipo di fotografia che non si limita a fermare l’istante, ma lo riformula, lo scompone e lo restituisce al mondo sotto forma di epifania gentile. Elliott Erwitt è stato maestro in questa alchimia silenziosa. La retrospettiva Icons, ora a Roma presso Palazzo Bonaparte dopo l’applaudita tappa pisana, è più di una mostra: è un archivio dell’ironia, una camera oscura dell’intelligenza visiva, una rivelazione della grazia nel quotidiano. Erwitt è stato uno dei pochi fotografi capaci di coniugare la raffinatezza compositiva con l’irriverenza controllata, l’intuizione lirica con la precisione giornalistica. Il suo scatto non è mai decorativo, ma assertivo; mai contemplativo, ma attivamente partecipativo nella dinamica dell’osservazione. Le sue immagini non spiegano, ma insinuano, ed è proprio in questa apertura semantica che risiede la loro forza: lo spettatore è convocato non a capire, ma a sentire. A Roma, ottanta fotografie sono esposte con un rigore che esclude ogni concessione al sentimentalismo. Curata da Biba Giacchetti – in dialogo diretto con Erwitt stesso prima della sua scomparsa – la selezione raccoglie alcuni degli scatti più celebri della storia della fotografia del secondo Novecento: Nixon e Kruscev, Jackie Kennedy al funerale del marito, l’incontro tra Muhammad Ali e Joe Frazier, Marlene Dietrich e Marilyn Monroe, Che Guevara, e poi, naturalmente, i cani. Ma ridurre Erwitt a una galleria di ritratti sarebbe un grave errore: ogni suo soggetto, famoso o anonimo, è un veicolo attraverso cui si manifesta una concezione più ampia della visione. Per Erwitt, la fotografia è uno strumento morale. Non nel senso della denuncia o della retorica, ma nella sua capacità di essere giusta, esatta, proporzionata. Il fotografo non si erge mai sopra il mondo: vi si immerge con discrezione e humour. È questo humour – elegante, calibrato, a tratti aforistico – a rendere il suo lavoro unico. A differenza di tanti autori che hanno fatto della serietà il loro marchio di fabbrica, Erwitt sa che il riso è una forma superiore di pensiero. In uno dei suoi scatti più noti, un cane minuscolo, tutto gambe, posa accanto a un padrone tagliato all’altezza dei polpacci. La composizione è perfetta, ma il significato è eccentrico: chi comanda? Chi osserva chi? In questa domanda si nasconde una riflessione sulla gerarchia, sul punto di vista, sull’antropocentrismo stesso. Il cane, nella fotografia di Erwitt, non è un vezzo né una caricatura. È, al contrario, un alter ego dell’umano, un complice, un soggetto dotato di statuto ontologico. Lo sguardo canino, spesso sorpreso grazie a piccoli espedienti – trombette, finti abbai – è più autentico di quello umano, perché privo di sovrastrutture. Erwitt ha costruito una vera e propria iconografia della presenza animale, sovvertendo il canone del ritratto urbano con un umorismo che non graffia, ma intenerisce. Anche nei ritratti dei grandi personaggi storici, l’approccio è sempre lo stesso: abbattere la distanza. Jackie Kennedy non è una first lady, ma una donna ferita; Nixon non è un presidente, ma un corpo in tensione; Ali è colto nel momento in cui il pugno diventa gesto estetico, la boxe una danza. Erwitt non cerca mai l’effetto, ma l’equilibrio. Eppure, nelle sue fotografie, tutto è potenzialmente sovversivo, perché ogni immagine nasconde un cortocircuito narrativo. Il suo bianco e nero non è uno stile: è una necessità. Il colore, per Erwitt, era una distrazione. Il bianco e nero, invece, gli permetteva di restare essenziale, di avvicinarsi alla struttura profonda della scena, alla sua ossatura semantica. Non c’è mai una luce compiaciuta o un’ombra retorica: tutto è al servizio di quella sospensione percettiva che permette allo spettatore di proiettarsi dentro la fotografia. Molto più di altri autori coevi – si pensi a Doisneau o a Winogrand – Erwitt ha saputo fondere l’immediatezza del gesto fotografico con una costruzione mentale sofisticatissima. Ogni sua immagine, pur nata in strada, vive della medesima architettura interna di un haiku. Nulla è superfluo, tutto è essenziale. Il suo è un pensiero visivo che si è fatto stile, e il suo stile è diventato linguaggio. Visitare la mostra di Palazzo Bonaparte significa misurarsi con un’intelligenza visiva fuori dal tempo, capace di illuminare anche l’oggi. Roma, con la sua stratificazione di epoche e contraddizioni, è il luogo perfetto per ospitare un autore che ha sempre lavorato sulle dissonanze: tra il tragico e il comico, tra la compostezza e il grottesco, tra la storia e la sua disarticolazione. Non c’è bisogno di conoscere i contesti per entrare nelle sue immagini: esse parlano direttamente a quella parte di noi che ancora riesce a sorridere nel momento più inatteso. In un’epoca che ha dimenticato il potere dell’osservazione lenta, della riflessione visiva, della costruzione di senso attraverso l’apparente insignificanza, la lezione di Elliott Erwitt resta un faro. Perché ci ricorda che la fotografia, quando è autentica, non mostra: rivela. Non intrattiene: spiazza. Non urla: sussurra. Con garbo. Con precisione. E con un’intelligenza che ci riguarda, perché ci umanizza.
Teatro dell’Opera di Roma – Nuovo allestimento
Basilica di Massenzio
LA RESURREZIONE
Oratorio in due parti di Georg Friedrich Händel
Per la prima volta la Basilica di Massenzio, nel cuore del Foro Romano, accoglie un’opera sacra in forma scenica. La Resurrezione di Händel, composta nel 1708 per la Roma del tardo Barocco, viene riproposta in un nuovo allestimento del Teatro dell’Opera di Roma che unisce la potenza della musica antica al linguaggio teatrale contemporaneo, in un luogo dove le pietre stesse sembrano trattenere il respiro del tempo. La direzione musicale è affidata a George Petrou, interprete tra i più autorevoli del repertorio händeliano, che guida l’Orchestra Nazionale Barocca dei Conservatori in una lettura appassionata e filologica, capace di restituire tutto il fervore espressivo della partitura. Accanto a lui, la regista Ilaria Lanzino firma una messa in scena elegante e visionaria, in dialogo diretto con l’architettura monumentale della Basilica, dove il sacro si fa spettacolo e la liturgia si apre all’invenzione scenica. Le scene sono ideate da Dirk Becker, mentre i costumi sono curati da Annette Braun. Cinque voci danno corpo e voce a personaggi che rappresentano la luce e l’ombra, la speranza e la perdizione. Sara Blanch è un Angelo luminoso e partecipe, Ana Maria Labin restituisce a Maddalena tutta la sua dolente umanità, Teresa Iervolino dà profondità a Cleofe con il suo timbro scuro e caldo. Charles Workman veste i panni di un San Giovanni intenso e spirituale, mentre Giorgio Caoduro presta forza e carisma a un Lucifero magnetico e tormentato. La Resurrezione non è solo una narrazione sacra: è un viaggio musicale e teatrale attraverso l’attesa, il dubbio e infine la luce. La scelta della Basilica di Massenzio come palcoscenico non è casuale: è un modo per riscoprire il Barocco dentro la Roma imperiale, creando una cesura emotiva e culturale tra ciò che è stato e ciò che può rinascere. In questo incontro tra Händel e le rovine, tra oratorio e rappresentazione, lo spettatore è invitato non solo ad ascoltare, ma a immergersi in un’esperienza che unisce l’intimo e il collettivo, il gesto musicale e la memoria archeologica. Il progetto rappresenta un passo importante nel percorso di apertura del Teatro dell’Opera di Roma verso la città e i suoi luoghi simbolici, trasformando lo spazio urbano e monumentale in teatro vivente. Un’operazione che riscrive il concetto di allestimento site-specific, non come semplice ambientazione, ma come vera rigenerazione del contesto storico attraverso il potere della musica. Per informazioni e prenotazioni www.operaroma.it
87° Festival del Maggio Musicale Fiorentino, Sala Grande del Teatro del Maggio
“AIDA”
Opera in quattro atti, su libretto di Antonio Ghislanzoni
Musica di GIUSEPPE VERDI
Aida OLGA MASLOVA
Amneris DANIELA BARCELLONA
Radamès SEOKJONG BAEK
Amonasro DANIEL LUIS DE VICENTE
Ramfis SIMON LIM
Il re d’Egitto MANUEL FUENTES
Gran sacerdotessa SUJI KWON
Un messaggero YAOZHOU HOU
Orchestra e Coro del Maggio Musicale Fiorentino
Direttore Zubin Mehta
Maestro del coro Lorenzo Fratini
Regia Damiano Michieletto
Scene Paolo Fantin
Costumi Carla Teti
Luci Alessandro Carletti
Video rocafilm | Roland Horvath
Drammaturgia Mattia Palma
Movimenti coreografici Thomas Wilhelm
Allestimento della Bayerische Staatsoper di Monaco
Firenze, 25 giugno 2025
Assente in cartellone dalla rappresentazione del 2011, di cui alcuni spettatori ricorderanno il cinematografico allestimento di Ozpetek (inspiegabilmente mai riproposto), Aida torna al Festival del Maggio Musicale Fiorentino. La produzione della Bayerische Staatsoper, pur con le sue cifre stilistiche, solleva qualche riserva, col suo lasciare indefiniti i rapporti tra i personaggi e le dinamiche tra le due popolazioni. Domina lo squallore, luoghi chiusi che sono fin dal principio teatro di guerra, dove le scene di Paolo Fantin e le coreografie di Thomas Wilhelm materializzano i ricordi di un’Aida bambina, intenta a giocare con i compagni di scuola, in cui non c’è traccia delle tanto sospirate “foreste imbalsamate” del “patrio suol”. La regia di Damiano Michieletto e la drammaturgia di Mattia Palma battono, infatti, attorno alla condanna di una guerra che non porta onori o veri vincitori, ma solo distruzione e annichilimento, come testimonia il progressivo incenerimento scenico. Questo il maggiore punto di forza, che con la complicità delle truci proiezioni di rocafilm–Roland Horvath culmina al momento del cerimoniale di premiazione dei condottieri, sulle note della marcia trionfale. Un messaggio chiaro e attuale, supportato dai moderni costumi di Carla Teti, tra i quali spicca l’abito nero con glitter dorati di Amneris; qui, le luci di Alessandro Carletti scivolano come a far trasparire una sorta di complementarietà con gli argentei bagliori della cenere, segno di un personaggio distrutto dal sistema del suo stesso popolo e dalla sua stessa indole. Ne risulta una linea registica indubbiamente significativa, ma calata in un quadro generale non sempre rispettoso del libretto e delle dinamiche interne, in cui l’apporto del maestoso e compatto coro di Lorenzo Fratini assume un ruolo cardine per la comprensione. A dispetto dei tanti anni di servizio alle spalle, la direzione di Zubin Mehta non perde i momenti di saggezza della “vecchia scuola”, restituendo con efficacia la concezione di una partitura pulsante e ricca di timbri evocativi, per una direzione caratterizzata da cromatismi audaci e silenzi eloquenti. Risulta, semmai, meno calzante la gestione ritmica, ora vibrante, ora rallentata nell’enfasi della sua magniloquenza, e la tendenza alla prevaricazione sonora, attitudini che hanno destato momenti di difficoltà tra i cantanti. Al limite del soddisfacente la performance del cast vocale, dominato dall’Aida di Olga Maslova, già convincente Turandot nel Festival dello scorso anno. La cantante russa è quella che meglio riesce nel sottile equilibrio tra intenzioni interpretative e risoluzione in voce, tratteggiando un personaggio credibile nella veemenza d’accento e capace d’immedesimazione nella culla della rievocazione della terra natìa, dove la voce si profonde in lunghi filati dal giusto squillo e dalla soffice proiezione. Non esente da qualche momento di maggiore fissità nei suoni (talora calanti in acuto) e da ristretti cromatismi, il soprano deve prestare attenzione agli estremi dell’estensione, che passano per qualche affondo più offuscato e da una ripetuta carenza d’armonici, che tanto sono mancati nella costituzione delle ipnotiche sospensioni acute a suggello della parte. Al suo fianco faceva sicura presa il singolare estro interpretativo-attoriale di Daniela Barcellona come Amneris, scolpita con un fraseggio permeato da combattiva prevaricazione, umano risentimento e inconsolabile rassegnazione. Ciononostante, il mezzosoprano non sembra del tutto a suo agio nel ruolo quanto a omogeneità e volume. La sua resa dà il meglio di sé nelle coinvolgenti volute proiettive del canto centro-acuto che foggiano la scena del giudizio e nel saggiare le fioriture d’inizio atto secondo, sebbene per una figlia del faraone di tutto rispetto ci saremmo aspettati maggiore rotondità e robustezza nella discesa ai gravi e acuti più folgoranti che stridenti. L’unico a brillare nella stratosfera dell’estensione era, dunque, il Radamès SeokJong Baek, stentoreo sulla tenuta di acuti, su cui si avverte la classica “lama” del tenore, ma decisamente più generico nel porgere e timbricamente meno compatto nel restante spettro vocale, a favore di un capitano non privo di momenti riflessivi, ma complessivamente piuttosto monocorde. Tra i vinti, Daniel Luis de Vicente esibisce il concitato piglio di un re oppresso, incastonato negli slanci di ampia gittata del tipico baritono verdiano, malgrado l’emissione risulti alle volte forzata e i suoni poco raccolti. Una caratteristica che l’accomuna al re egizio di Manuel Fuentes, risoluto in scena quanto fumoso nel timbro e, a tratti, al Ramfis di Simon Lim, che perlopiù riesce a compensare con volume e fermezza d’accento. Completavano la prova gli apporti di Yaozhou Hou, messaggero dal gentile timbro tenorile, e della sacerdotessa di Suji Kwon, che si è distinta per l’eterea e accurata esecuzione dal fuoriscena. Termina in tarda serata questa terza recita di Aida, tra gli applausi di un pubblico che sembra avere particolare entusiasmo soprattutto per il suo direttore onorario a vita.
Citta’ del Vaticano, Musei Vaticani
RESTAURO DELLA SALA DI COSTANTINO
Città del Vaticano, 26 giugno 2025
La Sala di Costantino nei Musei Vaticani, l’ambiente più ampio tra quelli comunemente noti come “Stanze di Raffaello”, torna oggi pienamente leggibile grazie a un complesso intervento di restauro che ha permesso di ricostruirne non solo l’assetto cromatico e tecnico, ma la funzione ideologica e la storia materiale. Si tratta, a tutti gli effetti, di un dispositivo figurativo al servizio della teologia del potere papale, articolato secondo un programma iconografico che intendeva celebrare e legittimare, attraverso la figura di Costantino, la continuità tra l’autorità imperiale romana e il primato ecclesiastico della Chiesa di Roma. L’ambiente, identificato nelle fonti come Aula Pontificum Superior, fu concepito per accogliere cerimonie solenni e momenti di alta rappresentanza. La sua dedicazione a Costantino non è ornamentale ma strutturale: l’imperatore che abbraccia la fede cristiana assurge a fondatore simbolico della Roma papale, interprete e garante della translatio imperii in chiave ecclesiastica. Il ciclo pittorico dunque non decora, ma argomenta; non illustra, ma fonda. Il progetto fu affidato da Leone X a Raffaello, che vi si dedicò con un’intenzione sperimentale di grande rilievo. In luogo dell’affresco tradizionale, il maestro introdusse una tecnica allora poco diffusa in ambito murale: la pittura a olio su intonaco. Le due figure allegoriche della Comitas e della Iustitia, eseguite di sua mano, sono le uniche a portarne testimonianza. Le indagini diagnostiche hanno confermato l’uso di colofonia – una resina naturale applicata a caldo – come preparazione per la stesura dell’olio, e la presenza di chiodi annegati nella parete indica l’intento di realizzare l’intero ciclo con tale tecnica, più duttile e più sensibile ai ripensamenti, adatta alla ricerca luministica e tonale del Raffaello maturo. Alla morte del maestro, l’impresa venne proseguita dai suoi collaboratori più fidati, Giulio Romano e Giovanni Francesco Penni, che optarono per il ritorno alla tecnica ad affresco, più gestibile nella gestione collettiva del cantiere. Le quattro grandi scene parietali – Visione della Croce, Battaglia di Ponte Milvio, Battesimo di Costantino e Donazione di Roma – costituiscono un ciclo coerente che costruisce la figura dell’imperatore come precursore ideale del pontefice. In esse si manifesta una teatralità compositiva che riflette la tendenza, già in atto, verso la monumentalizzazione del linguaggio figurativo romano, preludio al Manierismo. Il restauro ha reso possibile la lettura delle giornate – le sezioni giornaliere di stesura dell’intonaco – grazie alla luce ultravioletta e ai rilievi multispettrali, permettendo una ricostruzione minuziosa delle modalità operative, dei ritmi di lavoro e delle gerarchie di bottega. Le stesure successive, i pentimenti, le differenze di mano all’interno delle medesime figure, emergono oggi con una chiarezza filologica che restituisce all’osservatore l’intelligenza artigianale del fare artistico. L’intervento ha inoltre rimosso patine di vernici, ossidazioni e restauri incongrui accumulatisi nel tempo, riportando alla luce gamme cromatiche insospettate e valori chiaroscurali originari. Di particolare rilievo è l’analisi e il recupero della volta, realizzata in sostituzione del soffitto ligneo originale. Il progetto fu affidato a Tommaso Laureti, pittore bolognese di formazione michelangiolesca e già allievo di Sebastiano del Piombo, che si confrontò con la struttura muraria secondo un approccio illusionistico di alto virtuosismo. La volta propone una finta tappezzeria trattenuta da cinghie dipinte in trompe-l’œil, al cui centro si dispiega la grande scena del Trionfo del Cristianesimo sul Paganesimo. Si tratta di una macchina retorica di rara sofisticazione: le pieghe simulate, le ombre proiettate, la composizione scorciata secondo un impianto prospettico rigoroso, producono un effetto di conquista visiva che rispecchia e rafforza il contenuto dottrinale dell’intera sala. Parallelamente, l’intervento ha implicato una riflessione museologica attenta. La sala è rimasta accessibile durante l’intera durata del restauro, con ponteggi progettati per minimizzare l’impatto visivo e percorsi pensati per integrare il pubblico nel processo. L’operazione è stata condotta come pratica trasparente, educativa, aperta: un cantiere esposto, non occultato, che ha trasformato il restauro stesso in atto culturale. La diagnostica scientifica ha supportato ogni fase con strumenti avanzati: riflettografie IR, spettrometria XRF, analisi multispettrali e confronti con la documentazione conservata presso il laboratorio dei Musei Vaticani, attivo da oltre un secolo. Questo patrimonio archivistico ha consentito di distinguere le integrazioni ottocentesche dalle stesure originarie, guidando l’intervento con criteri di rigorosa filologia pittorica. La Sala di Costantino si presenta oggi come un organismo stratificato ma coeso. Non più un insieme disomogeneo di interventi, ma una polifonia controllata, in cui le mani di Raffaello, Giulio Romano, Penni, Sebastiano del Piombo e Laureti si intrecciano in una partitura complessa, ma leggibile. Essa costituisce un vero e proprio atlante della pittura romana del Cinquecento: una macchina ideologica, una struttura figurativa e un documento tecnico, in cui forma e potere si equivalgono e si potenziano reciprocamente.
Balla illuminerà Parma: la grande arte moderna nel segno di una nuova alleanza culturale
Al Palazzo del Governatore, un’importante monografica inaugurerà la collaborazione tra GNAMC e la città emiliana
Roma, 25 giugno 2025
Un nuovo asse culturale unirà Roma e Parma in un progetto biennale che punta a espandere la fruizione del patrimonio pubblico attraverso una rete virtuosa tra istituzioni. La Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea e il Comune di Parma hanno firmato un accordo che prenderà avvio con Giacomo Balla. Un universo di luce, una mostra di grande respiro che sarà ospitata dal 5 ottobre 2025 al 2 febbraio 2026 negli spazi del Palazzo del Governatore. Con questa operazione, la GNAMC riaffermerà la propria vocazione a essere protagonista sulla scena nazionale, proseguendo una linea di relazioni già avviata con la Pinacoteca di Brera nel 2024. Si tratterà di un modello di disseminazione museale fondato non sulla semplice movimentazione di opere, ma su una progettualità condivisa, scientificamente strutturata e intellettualmente autonoma. «Questo progetto non nasce per delega ma per visione», ha dichiarato Renata Cristina Mazzantini, direttrice della Galleria Nazionale. «Abbiamo concepito, prodotto e curato integralmente questa mostra come atto di ricerca e responsabilità pubblica. A Parma giungeranno non solo sessanta opere di Balla, ma un dispositivo di pensiero, frutto del lavoro del nostro museo». L’esposizione sarà realizzata con il sostegno della Fondazione Cariparma e la collaborazione di Solares Fondazione delle Arti, sotto il coordinamento scientifico di Simona Tosini Pizzetti. La curatela sarà affidata alla stessa Mazzantini e a Cesare Biasini Selvaggi, figura di rilievo della critica d’arte italiana, che imprimerà alla mostra un taglio teorico e curatoriale di notevole coerenza. Il contributo di Elena Gigli, in qualità di supporto curatorio, accompagnerà il progetto nelle sue fasi esecutive. «Balla è un artista che continua a interrogarci, e la sfida sarà quella di liberarlo dai cliché storiografici», afferma Biasini Selvaggi. «Sceglieremo di mettere al centro la sua ossessione per la luce, per il moto, per la smaterializzazione della forma. Il percorso non sarà cronologico, ma visivo: seguirà la traiettoria di un pensiero che attraversa il secolo senza mai irrigidirsi in una formula». Non a caso, la mostra non si limiterà al periodo futurista più celebrato, ma abbraccerà l’intera vicenda creativa dell’artista torinese: dagli esordi influenzati dal realismo sociale e dal divisionismo (Nello specchio, 1901-02; Ritratto della madre, 1902 circa), sino ai lavori del secondo dopoguerra, più intimi e visionari, come La fila per l’agnello (1942) o Campagna romana (1956), eseguito a china. Il corpus principale proverrà dal fondo donato alla GNAMC dalle figlie dell’artista, Elica e Luce Balla, tra il 1984 e il 1998: una raccolta che copre l’arco intero dell’attività balliana e che, nella mostra, sarà messa a fuoco attraverso un allestimento organico e filologicamente attento. Tra i pezzi di maggior rilievo figureranno il polittico Dei viventi (1905), testimonianza di una sensibilità ancora pre-futurista ma già vibrante, il trittico Affetti (1910), riflessione pittorica sull’intimità familiare, e una selezione di disegni futuristi curata da Maurizio Fagiolo dell’Arco, che ne aveva già colto l’essenza strutturale e visionaria. Per Lorenzo Lavagetto, vicesindaco con delega alla cultura, l’iniziativa rappresenterà «una svolta concreta per la vocazione espositiva del Palazzo del Governatore, che ritroverà un’identità forte, capace di parlare sia alla cittadinanza che a un pubblico nazionale». La mostra si configurerà, infatti, non come un’esportazione di contenuti, ma come un laboratorio culturale: sarà il museo stesso a mettersi in movimento, trasferendo con sé competenze, saperi, dispositivi di interpretazione. Il titolo Un universo di luce non sarà metaforico. La luce, in Balla, non è semplice effetto ottico, ma materia mentale, forza generativa, linguaggio in sé. Sarà attraverso la luce che l’artista tenterà di rappresentare il tempo, l’energia, la velocità, anticipando in molti casi le dinamiche visive del presente. «In tempi dominati dall’algoritmo e dall’automatismo, Balla ci ricorda che anche l’astrazione ha un’origine emotiva e sensibile», sottolinea ancora Biasini Selvaggi. «La sua opera non smette di interrogare il nostro rapporto con l’immagine e con la modernità stessa». Questa esposizione non proporrà soltanto una rilettura dell’opera di Balla, ma affermerà con forza il ruolo pubblico delle istituzioni museali nel produrre conoscenza, creare senso, costruire memoria. Il lavoro congiunto di Renata Cristina Mazzantini e Cesare Biasini Selvaggi restituirà un’immagine attuale e potentemente attiva di uno dei grandi maestri del Novecento italiano. Un progetto che parlerà di rigore e visione, ma anche di futuro: quello dell’arte come motore di pensiero critico e come forma concreta di cittadinanza culturale.
Roma, Teatro Costanzi
“CARMEN”
Opéra-comique in quattro atti su libretto di Henri Meilhac e Ludovic Halévy dalla novella di Prosper Mérimée
Carmen KETEVAN KEMOKLIDZE
Micaela EKATERINA BAKANOVA
Frasquita MEGHAN PICERNO
Mercedes ANNA PENNISI
Don José JORGE DE LEON
Escamillo ANDREI BONDARENKO
Le Dancaire ALESSIO VERNA
Le Remendado BLAGOJ NACOSKI
Morales MATTEO TORCASO
Zuniga NICOLAS BROOYMANS
Orchestra e Coro del Teatro dell’Opera di Roma
con la partecipazione del Coro di Voci Bianche del Teatro dell’Opera di Roma (maestro Alberto de Sanctis)
Direttore Omer Meir Wellber
Maestro del coro Ciro Visco
Regia Fabio Ceresa
Scene e Costumi Renato Guttuso
Luci Giuseppe di Iorio
Allestimento Teatro dell’Opera di Roma
Riproposto nella versione storica del 1970
Roma, 25 giugno 2025
Dopo il debutto, uno sguardo a una replica con cast alternativo rivela nuove sfumature in una partitura che vive di continua reinvenzione. Alla guida dell’Orchestra del Teatro dell’Opera di Roma, Omer Meir Wellber conferma la sua statura direttoriale con una lettura di Carmen di solida coerenza e impeto drammatico. La sua direzione riesce a fondere rigore strutturale e slancio teatrale, in un equilibrio espressivo che si irradia attraverso il fraseggio plastico, l’intelligenza dinamica e un uso del tempo musicale sempre misurato. L’orchestra, da lui plasmata con gesto fermo ma comunicativo, ha restituito un suono denso e calibrato, in cui i diversi registri timbrici si integrano con naturalezza: dagli archi levigati e mobili ai fiati cesellati, fino alle percussioni, incisive senza mai soverchiare. Wellber ha dimostrato un controllo assoluto della materia musicale, costruendo una concertazione fluida e articolata, capace di accompagnare le voci senza ingabbiarle, sostenendole piuttosto con discrezione e attenzione. Ne emerge una Carmen piena di tensione interna e vitalità narrativa, dove l’impulso ritmico si piega con duttilità alla logica della parola scenica, e il respiro orchestrale segue con naturalezza le pieghe del dramma. La scelta di riproporre un allestimento già noto risulta così giustificata da una rinnovata linfa interpretativa, che rende questa edizione viva e convincente sul piano musicale. Tra le voci protagoniste, Jorge de León affronta il ruolo di Don José con una vocalità generosa, ben sostenuta sul fiato e solida nell’emissione. Il tenore spagnolo mostra una buona omogeneità tra i registri e una proiezione sonora efficace, con acuti sicuri e timbrati. Tuttavia, l’approccio resta prevalentemente lineare, con un fraseggio spesso privo delle mezzevoci e delle modulazioni dinamiche che restituiscono la fragilità interiore del personaggio. L’aria La fleur que tu m’avais jetée, banco di prova per ogni Don José, è resa con correttezza tecnica e buona intonazione, ma manca di quella sospensione emotiva che ne fa uno dei vertici lirici dell’opera. Anche sul piano attoriale, de León privilegia l’efficacia vocale a scapito dell’introspezione: la sua gestualità rimane scolastica, poco articolata, convincente nei momenti di tensione fisica, ma meno efficace nei duetti più intimi. In sintesi, una prova robusta sotto il profilo tecnico, ma ancora distante dalla piena maturità interpretativa richiesta dal ruolo. Di ben altro spessore l’interpretazione di Ketevan Kemoklidze nel ruolo eponimo. Il mezzosoprano georgiano offre una Carmen di notevole completezza, tanto sul piano vocale quanto su quello scenico. Il timbro ambrato, pastoso, dai gravi ricchi e sicuri, si unisce a un’emissione fluida e a un legato controllato, capace di sostenere l’intera tessitura con omogeneità e intensità. La voce si muove con agilità tra le varie sfumature espressive, e il fraseggio risulta musicalissimo, attento alle inflessioni del testo e sempre calibrato. Kemoklidze domina la scena con eleganza naturale e una sensualità mai caricaturale, componendo un personaggio sfaccettato, terreno, libero, fortemente credibile. L’Habanera è resa con un’ironia sottile e disincantata, mentre l’ultima scena, nella sua tragica inevitabilità, vibra di tensione e orgoglio ferito. Una prova di grande maturità e consapevolezza. Nel ruolo di Escamillo, Andrei Bondarenko si presenta con carisma e una vocalità potente, affrontando la Chanson du Toréador con notevole impeto. Il timbro caldo e maschile si presta bene alla spavalderia del personaggio, e la linea vocale, soprattutto nei centri, si impone con autorevolezza. La figura scenica, però, risulta meno convincente sul piano attoriale: l’interprete appare talvolta rigido nei movimenti e poco disinvolto, lontano dalla naturalezza seduttiva che il ruolo richiederebbe. L’irruenza interpretativa, pur efficace sul piano sonoro, porta a un’emissione non sempre rifinita, specie nei passaggi finali del brano, dove il controllo si allenta e il suono si fa meno nitido. Nel ruolo di Micaëla, Ekaterina Bakanova offre un’interpretazione emotivamente sincera, ma non priva di irregolarità sul piano vocale. La sua presenza scenica, pur delicata e luminosa, risente di una proiezione vocale a tratti contenuta, con una voce che tende ad affievolirsi nei passaggi orchestrali più densi. Alcuni momenti chiave, come l’aria Je dis que rien ne m’épouvante, evidenziano una linea di canto accurata e musicalmente sensibile, ma compromessa da un affaticamento vocale che ne limita la tenuta sul fiato e la coerenza dell’arco espressivo. La sensibilità interpretativa è indubbia, ma resta condizionata dal dialogo altalenante con la direzione musicale: i tempi imposti dall’orchestra talvolta sembrano sottrarle respiro, minando l’equilibrio tra fraseggio e proiezione. Una Micaëla fragile e toccante, ma non sempre a fuoco nei mezzi vocali. Tra i ruoli comprimari, da segnalare la buona coesione dell’ensemble: Meghan Picerno (Frasquita) e Anna Pennisi (Mercedes) offrono voci ben tornite e precise nei concertati; Alessio Verna (Dancairo) e Blagoj Nacoski (Remendado) danno vivacità alle loro brevi apparizioni, mentre Nicolas Brooymans (Zuniga) e Matteo Torcaso (Morales) confermano solidità vocale e presenza scenica adeguata. Un insieme affiatato e ben calibrato, funzionale all’economia della messinscena. Infine, il coro – preparato con rigore da Ciro Visco – ha dato prova di eccellente compattezza e slancio teatrale. L’omogeneità timbrica, la precisione ritmica e la chiarezza dell’articolazione hanno restituito un suono d’insieme di grande impatto. Di particolare suggestione l’intervento del primo atto, arricchito dalle voci bianche dirette da Alberto De Sanctis, che hanno aggiunto freschezza e brillantezza timbrica all’insieme. Un apporto corale che ha sostenuto con efficacia il ritmo interno dell’opera e la sua funzione narrativa, contribuendo in modo sostanziale al successo musicale della serata. Una platea forse più incline all’effetto che all’ascolto analitico, ma comunque partecipe e generosa nel tributo finale.
Camilla Ancilotto, “Ab Ovo – Ippocampo”: vicende di una scultura dispersa e restituita
Sopravvissuta all’esplosione di Beirut, ritrovata dopo sei anni, l’opera in acciaio e foglia d’oro di Camilla Ancilotto torna visibile a Palazzo Valentini per la Biennale della Riviera Romana. «L’opera non ha mai smesso di esistere, anche quando era assente», afferma l’artista.
È raro, oggi, che un’opera d’arte porti su di sé le tracce vere del tempo, non in senso metaforico ma letterale. L’abitudine moderna a trattare l’arte come elemento da esposizione in ambienti neutri – puliti, controllati, illesi – ha quasi del tutto cancellato l’idea che un oggetto artistico possa attraversare eventi storici senza soccombervi, e anzi, da essi essere trasformato. La scultura di Camilla Ancilotto intitolata Ab Ovo – Ippocampo, in esposizione a Palazzo Valentini dal 14 al 30 luglio nell’ambito della Biennale Internazionale d’Arte della Riviera Romana, rappresenta un raro esempio di sopravvivenza materiale e formale. Si tratta di un’opera in acciaio lucidato a specchio, composta secondo un principio modulare ispirato al Tangram cinese, e impreziosita da inserti in foglia d’oro 24 carati. Il soggetto, un ippocampo, appartiene a quell’iconografia anfibia che attraversa indistintamente il mondo greco e romano, la zoologia mitica e la neuroanatomia. Ma al di là delle intenzioni formali e simboliche dell’artista – che meriterebbero altra e più ampia sede – quel che davvero interessa è la vicenda storica dell’opera, ovvero ciò che la distingue da tante, troppe produzioni contemporanee prive di qualunque peso oggettivo. Nel settembre del 2019 l’opera viene spedita a Beirut per essere esposta presso la galleria Belvedere Art Space. È collocata in un Paese già segnato da un’instabilità cronica, che tuttavia ancora ospita momenti significativi di scambio artistico. Poco meno di un anno dopo, il 4 agosto 2020, la devastante esplosione che colpisce il porto di Beirut riduce in macerie una vasta area urbana, travolgendo anche la sede della galleria. Dell’opera si perdono le tracce. Inizia allora una lunga serie di richieste, tentativi, corrispondenze interrotte e promesse disattese, fino al 2024, quando l’artista apprende che la galleria ha nel frattempo trasferito le sue attività a Dubai. È solo grazie all’intervento del Consolato italiano negli Emirati che Ab Ovo – Ippocampo viene infine ritrovata e riportata in Italia. Ora, a chi scrive non interessa indulgere in sentimentalismi o retoriche di resurrezione. Ma è difficile ignorare la carica concreta che un’opera assume dopo una lunga assenza, soprattutto quando questa assenza non è solo fisica ma anche simbolica. Ab Ovo – Ippocampo ritorna in un luogo preciso – una sala affrescata del Settecento, parte dell’apparato decorativo voluto dal cardinale Giuseppe Spinelli – e lì si confronta non con uno spazio astratto, ma con superfici, misure, cornici e proporzioni che hanno una storia. La scultura, riflettente e scindibile in moduli, non si limita a occupare un punto della sala: lo scompone, lo rifrange, lo reinventa attraverso il riverbero del metallo. In questo senso, l’opera non “dialoga” con l’ambiente (espressione ormai logora), ma ne riattiva i volumi, ne mostra i margini, ne rompe la simmetria. L’oro, utilizzato con misura e intelligenza, introduce un elemento di latenza sacra, senza scivolare nella decorazione gratuita. Ancilotto conosce bene il rischio della brillantezza: sa che l’oro deve esistere come accento, mai come superficie dominante. E infatti l’opera riesce a mantenersi in equilibrio tra monumentalità e dettaglio, tra organicità del soggetto e scomposizione geometrica della forma. Il risultato è qualcosa che – a dispetto della levigatezza dei materiali – ha una struttura interna che non cede alla contingenza, e che si presta alla visione tanto quanto alla riflessione. Il tema scelto dalla Biennale 2025, Arte e Giubileo: un cammino di speranza verso la luce, rischierebbe in altri contesti di suonare vago, quasi omiletico. Qui, invece, acquista un senso non dichiarato ma praticato. L’opera non rappresenta la speranza, non illustra la luce: è semplicemente riemersa da un contesto di oscurità reale – la polvere, il silenzio, la distanza. La sua presenza fisica è già una testimonianza. È in questo quadro che va letta anche la doppia esposizione dell’artista: mentre Ab Ovo – Ippocampo è collocato a Palazzo Valentini, una seconda scultura, Ab Ovo – Rabbit, è visibile dal 12 luglio al 31 agosto presso il Castello di Santa Severa. Anche qui il principio è modulare, ma le condizioni espositive mutano: dalla sala chiusa alla luce serale del litorale, dalla riflessione interiore alla proiezione esterna. Sarebbe ingenuo trarre da tutto ciò una morale. Ma ciò che resta, osservando Ab Ovo – Ippocampo oggi, è un senso raro di oggettività. Non c’è nulla, in quest’opera, che invochi l’attualità per forza. Nulla che pretenda di spiegare o persuadere. La sua esistenza è già una forma di persistenza. E, per una volta, non si tratta di una metafora.
Roma, VIVE
CITTA’ APERTA 2025
ideata da Edith Gabrielli
con la cura di Roberto Koch e Alessandra Mauro
Roma, 25 giugno 2025
È nel silenzio solenne del Vittoriano, più ancora che nelle sue celebrazioni, che la città eterna si rivela per quella che è: un organismo vivo, mai fermo, ora contraddittorio, ora ieratico, ma sempre irriducibile a una sola immagine. La mostra Città aperta 2025, allestita nella Sala Zanardelli e ideata da Edith Gabrielli con la cura acuta di Roberto Koch e Alessandra Mauro, si muove precisamente in questa direzione: restituire a Roma la sua pluralità di sguardi senza mai tradirne la sostanza. Non un’esposizione, dunque, ma una riflessione fotografica sul tempo, sul rito e sullo spazio urbano come palinsesto. I tre autori convocati – Diana Bagnoli, Alex Majoli e Paolo Pellegrin – non si limitano a registrare il Giubileo del 2025 come evento, ma ne scandagliano le crepe, i riverberi, le tensioni interiori. È la Roma che celebra e piange, che si stringe nei riti funebri di un Papa e si apre, poche settimane dopo, alla speranza solenne del nuovo pontificato. E se è vero, come sosteneva un grande antiquario dell’immagine, che la fotografia non è documento ma visione, allora queste duecento fotografie tracciano la mappa topografica di uno stato d’animo collettivo. Nel lavoro di Diana Bagnoli c’è la Roma dell’attesa, quella che pulsa nei canti delle comunità filippine in periferia, nei gesti lenti delle madri africane sedute ai giardini di Torpignattara, nelle liturgie improvvisate negli scantinati trasformati in cappelle. Il colore che adopera – mai decorativo, mai urlato – è materia simbolica, filtro devoto attraverso cui guardare l’invisibile. Non c’è folclore né retorica: i suoi pellegrini, anche i più anonimi, hanno la compostezza tragica di chi sa che il viaggio è un atto di fede prima ancora che di movimento. Alex Majoli, invece, costruisce Roma come scena. Ogni scatto è un proscenio, ogni composizione un’azione tragica. La luce che usa – simile a quella dei fari teatrali – isola i soggetti e li rende archetipi. C’è un pathos borghese, quasi borromaico, nei suoi ritratti della folla; eppure mai distacco, mai compiacimento. In Majoli si sente la tradizione della pittura barocca, quel modo tutto romano di fare del quotidiano un enigma teologico. Anche quando la sua macchina si posa su una suora che mangia un gelato o un mendicante sotto un manifesto del Papa defunto, ciò che traspare non è la cronaca, ma la vertigine del tempo che ritorna. Il terzo sguardo, quello di Paolo Pellegrin, è il più mobile, il più instabile e, forse, il più intimo. Roma, nelle sue immagini, non è solo luogo: è memoria, detrito, eco. Pellegrin entra nei margini e ne fa centri, attraversa il fiume e i suoi argini con uno sguardo da rabdomante. Le sue periferie – Ostiense, Primavalle, l’Appio – si piegano e si dilatano fino a diventare paesaggio dell’anima. Si direbbe che la sua fotografia non voglia catturare, ma lasciare accadere. Come se il fotogramma fosse già passato attraverso l’occhio, il cuore e infine la mano. Il percorso espositivo, distribuito su due piani, evita ogni trionfalismo didascalico. Le immagini non illustrano, evocano. Non seguono un ordine lineare, ma compongono un contrappunto visivo in cui ogni autore dialoga con gli altri, contraddicendoli, confermandoli, superandoli. E qui la curatela è chirurgica: la mano invisibile che guida senza mai imporsi. Le tre videointerviste firmate da Paolo Freschi, discrete e nitide, completano l’apparato espositivo come una forma di controcanto audiovisivo. Ma il colpo di grazia – e uso l’espressione in senso salvifico – è dato dal testo inedito di Valerio Magrelli che scorre, lento e oracolare, su un grande ledwall. Non si tratta di un semplice accompagnamento poetico, ma di un controtesto che sposta la lettura, suggerendo sottotesti, rimandi e chiose. Magrelli non spiega, scava: ed è in questo gesto, antico e insieme modernissimo, che la mostra trova la sua cifra più autentica. Infine, quasi a voler sigillare questa sinfonia di sguardi, il giardino di Palazzo Venezia si offre come estensione all’aperto del progetto. I totem fotografici qui disposti non sono solo apparati didattici ma forme architettoniche di presenza: monoliti urbani che restituiscono alla città la propria immagine, come specchi opachi, mai concilianti. Città aperta 2025 non è una mostra sul Giubileo, né su Roma. È una mostra sull’atto del guardare, sul gesto del riconoscere, sull’urgenza del comprendere. I tre fotografi convocati non offrono soluzioni né interpretazioni rassicuranti. Offrono testimonianze, nel senso più profondo del termine: essere testimoni è, in fondo, un atto di responsabilità. E il VIVE, con questa iniziativa, dimostra ancora una volta di non volersi limitare al ruolo di custode della memoria, ma di voler esercitare una funzione critica nel presente. Come direbbe qualcuno, in questa mostra non c’è nulla di più contemporaneo dell’eternità.