Roma, Teatro Costanzi
“CARMEN”
Opéra-comique in quattro atti su libretto di Henri Meilhac e Ludovic Halévy dalla novella di Prosper Mérimée
Carmen KETEVAN KEMOKLIDZE
Micaela EKATERINA BAKANOVA
Frasquita MEGHAN PICERNO
Mercedes ANNA PENNISI
Don José JORGE DE LEON
Escamillo ANDREI BONDARENKO
Le Dancaire ALESSIO VERNA
Le Remendado BLAGOJ NACOSKI
Morales MATTEO TORCASO
Zuniga NICOLAS BROOYMANS
Orchestra e Coro del Teatro dell’Opera di Roma
con la partecipazione del Coro di Voci Bianche del Teatro dell’Opera di Roma (maestro Alberto de Sanctis)
Direttore Omer Meir Wellber
Maestro del coro Ciro Visco
Regia Fabio Ceresa
Scene e Costumi Renato Guttuso
Luci Giuseppe di Iorio
Allestimento Teatro dell’Opera di Roma
Riproposto nella versione storica del 1970
Roma, 25 giugno 2025
Dopo il debutto, uno sguardo a una replica con cast alternativo rivela nuove sfumature in una partitura che vive di continua reinvenzione. Alla guida dell’Orchestra del Teatro dell’Opera di Roma, Omer Meir Wellber conferma la sua statura direttoriale con una lettura di Carmen di solida coerenza e impeto drammatico. La sua direzione riesce a fondere rigore strutturale e slancio teatrale, in un equilibrio espressivo che si irradia attraverso il fraseggio plastico, l’intelligenza dinamica e un uso del tempo musicale sempre misurato. L’orchestra, da lui plasmata con gesto fermo ma comunicativo, ha restituito un suono denso e calibrato, in cui i diversi registri timbrici si integrano con naturalezza: dagli archi levigati e mobili ai fiati cesellati, fino alle percussioni, incisive senza mai soverchiare. Wellber ha dimostrato un controllo assoluto della materia musicale, costruendo una concertazione fluida e articolata, capace di accompagnare le voci senza ingabbiarle, sostenendole piuttosto con discrezione e attenzione. Ne emerge una Carmen piena di tensione interna e vitalità narrativa, dove l’impulso ritmico si piega con duttilità alla logica della parola scenica, e il respiro orchestrale segue con naturalezza le pieghe del dramma. La scelta di riproporre un allestimento già noto risulta così giustificata da una rinnovata linfa interpretativa, che rende questa edizione viva e convincente sul piano musicale. Tra le voci protagoniste, Jorge de León affronta il ruolo di Don José con una vocalità generosa, ben sostenuta sul fiato e solida nell’emissione. Il tenore spagnolo mostra una buona omogeneità tra i registri e una proiezione sonora efficace, con acuti sicuri e timbrati. Tuttavia, l’approccio resta prevalentemente lineare, con un fraseggio spesso privo delle mezzevoci e delle modulazioni dinamiche che restituiscono la fragilità interiore del personaggio. L’aria La fleur que tu m’avais jetée, banco di prova per ogni Don José, è resa con correttezza tecnica e buona intonazione, ma manca di quella sospensione emotiva che ne fa uno dei vertici lirici dell’opera. Anche sul piano attoriale, de León privilegia l’efficacia vocale a scapito dell’introspezione: la sua gestualità rimane scolastica, poco articolata, convincente nei momenti di tensione fisica, ma meno efficace nei duetti più intimi. In sintesi, una prova robusta sotto il profilo tecnico, ma ancora distante dalla piena maturità interpretativa richiesta dal ruolo. Di ben altro spessore l’interpretazione di Ketevan Kemoklidze nel ruolo eponimo. Il mezzosoprano georgiano offre una Carmen di notevole completezza, tanto sul piano vocale quanto su quello scenico. Il timbro ambrato, pastoso, dai gravi ricchi e sicuri, si unisce a un’emissione fluida e a un legato controllato, capace di sostenere l’intera tessitura con omogeneità e intensità. La voce si muove con agilità tra le varie sfumature espressive, e il fraseggio risulta musicalissimo, attento alle inflessioni del testo e sempre calibrato. Kemoklidze domina la scena con eleganza naturale e una sensualità mai caricaturale, componendo un personaggio sfaccettato, terreno, libero, fortemente credibile. L’Habanera è resa con un’ironia sottile e disincantata, mentre l’ultima scena, nella sua tragica inevitabilità, vibra di tensione e orgoglio ferito. Una prova di grande maturità e consapevolezza. Nel ruolo di Escamillo, Andrei Bondarenko si presenta con carisma e una vocalità potente, affrontando la Chanson du Toréador con notevole impeto. Il timbro caldo e maschile si presta bene alla spavalderia del personaggio, e la linea vocale, soprattutto nei centri, si impone con autorevolezza. La figura scenica, però, risulta meno convincente sul piano attoriale: l’interprete appare talvolta rigido nei movimenti e poco disinvolto, lontano dalla naturalezza seduttiva che il ruolo richiederebbe. L’irruenza interpretativa, pur efficace sul piano sonoro, porta a un’emissione non sempre rifinita, specie nei passaggi finali del brano, dove il controllo si allenta e il suono si fa meno nitido. Nel ruolo di Micaëla, Ekaterina Bakanova offre un’interpretazione emotivamente sincera, ma non priva di irregolarità sul piano vocale. La sua presenza scenica, pur delicata e luminosa, risente di una proiezione vocale a tratti contenuta, con una voce che tende ad affievolirsi nei passaggi orchestrali più densi. Alcuni momenti chiave, come l’aria Je dis que rien ne m’épouvante, evidenziano una linea di canto accurata e musicalmente sensibile, ma compromessa da un affaticamento vocale che ne limita la tenuta sul fiato e la coerenza dell’arco espressivo. La sensibilità interpretativa è indubbia, ma resta condizionata dal dialogo altalenante con la direzione musicale: i tempi imposti dall’orchestra talvolta sembrano sottrarle respiro, minando l’equilibrio tra fraseggio e proiezione. Una Micaëla fragile e toccante, ma non sempre a fuoco nei mezzi vocali. Tra i ruoli comprimari, da segnalare la buona coesione dell’ensemble: Meghan Picerno (Frasquita) e Anna Pennisi (Mercedes) offrono voci ben tornite e precise nei concertati; Alessio Verna (Dancairo) e Blagoj Nacoski (Remendado) danno vivacità alle loro brevi apparizioni, mentre Nicolas Brooymans (Zuniga) e Matteo Torcaso (Morales) confermano solidità vocale e presenza scenica adeguata. Un insieme affiatato e ben calibrato, funzionale all’economia della messinscena. Infine, il coro – preparato con rigore da Ciro Visco – ha dato prova di eccellente compattezza e slancio teatrale. L’omogeneità timbrica, la precisione ritmica e la chiarezza dell’articolazione hanno restituito un suono d’insieme di grande impatto. Di particolare suggestione l’intervento del primo atto, arricchito dalle voci bianche dirette da Alberto De Sanctis, che hanno aggiunto freschezza e brillantezza timbrica all’insieme. Un apporto corale che ha sostenuto con efficacia il ritmo interno dell’opera e la sua funzione narrativa, contribuendo in modo sostanziale al successo musicale della serata. Una platea forse più incline all’effetto che all’ascolto analitico, ma comunque partecipe e generosa nel tributo finale.
Camilla Ancilotto, “Ab Ovo – Ippocampo”: vicende di una scultura dispersa e restituita
Sopravvissuta all’esplosione di Beirut, ritrovata dopo sei anni, l’opera in acciaio e foglia d’oro di Camilla Ancilotto torna visibile a Palazzo Valentini per la Biennale della Riviera Romana. «L’opera non ha mai smesso di esistere, anche quando era assente», afferma l’artista.
È raro, oggi, che un’opera d’arte porti su di sé le tracce vere del tempo, non in senso metaforico ma letterale. L’abitudine moderna a trattare l’arte come elemento da esposizione in ambienti neutri – puliti, controllati, illesi – ha quasi del tutto cancellato l’idea che un oggetto artistico possa attraversare eventi storici senza soccombervi, e anzi, da essi essere trasformato. La scultura di Camilla Ancilotto intitolata Ab Ovo – Ippocampo, in esposizione a Palazzo Valentini dal 14 al 30 luglio nell’ambito della Biennale Internazionale d’Arte della Riviera Romana, rappresenta un raro esempio di sopravvivenza materiale e formale. Si tratta di un’opera in acciaio lucidato a specchio, composta secondo un principio modulare ispirato al Tangram cinese, e impreziosita da inserti in foglia d’oro 24 carati. Il soggetto, un ippocampo, appartiene a quell’iconografia anfibia che attraversa indistintamente il mondo greco e romano, la zoologia mitica e la neuroanatomia. Ma al di là delle intenzioni formali e simboliche dell’artista – che meriterebbero altra e più ampia sede – quel che davvero interessa è la vicenda storica dell’opera, ovvero ciò che la distingue da tante, troppe produzioni contemporanee prive di qualunque peso oggettivo. Nel settembre del 2019 l’opera viene spedita a Beirut per essere esposta presso la galleria Belvedere Art Space. È collocata in un Paese già segnato da un’instabilità cronica, che tuttavia ancora ospita momenti significativi di scambio artistico. Poco meno di un anno dopo, il 4 agosto 2020, la devastante esplosione che colpisce il porto di Beirut riduce in macerie una vasta area urbana, travolgendo anche la sede della galleria. Dell’opera si perdono le tracce. Inizia allora una lunga serie di richieste, tentativi, corrispondenze interrotte e promesse disattese, fino al 2024, quando l’artista apprende che la galleria ha nel frattempo trasferito le sue attività a Dubai. È solo grazie all’intervento del Consolato italiano negli Emirati che Ab Ovo – Ippocampo viene infine ritrovata e riportata in Italia. Ora, a chi scrive non interessa indulgere in sentimentalismi o retoriche di resurrezione. Ma è difficile ignorare la carica concreta che un’opera assume dopo una lunga assenza, soprattutto quando questa assenza non è solo fisica ma anche simbolica. Ab Ovo – Ippocampo ritorna in un luogo preciso – una sala affrescata del Settecento, parte dell’apparato decorativo voluto dal cardinale Giuseppe Spinelli – e lì si confronta non con uno spazio astratto, ma con superfici, misure, cornici e proporzioni che hanno una storia. La scultura, riflettente e scindibile in moduli, non si limita a occupare un punto della sala: lo scompone, lo rifrange, lo reinventa attraverso il riverbero del metallo. In questo senso, l’opera non “dialoga” con l’ambiente (espressione ormai logora), ma ne riattiva i volumi, ne mostra i margini, ne rompe la simmetria. L’oro, utilizzato con misura e intelligenza, introduce un elemento di latenza sacra, senza scivolare nella decorazione gratuita. Ancilotto conosce bene il rischio della brillantezza: sa che l’oro deve esistere come accento, mai come superficie dominante. E infatti l’opera riesce a mantenersi in equilibrio tra monumentalità e dettaglio, tra organicità del soggetto e scomposizione geometrica della forma. Il risultato è qualcosa che – a dispetto della levigatezza dei materiali – ha una struttura interna che non cede alla contingenza, e che si presta alla visione tanto quanto alla riflessione. Il tema scelto dalla Biennale 2025, Arte e Giubileo: un cammino di speranza verso la luce, rischierebbe in altri contesti di suonare vago, quasi omiletico. Qui, invece, acquista un senso non dichiarato ma praticato. L’opera non rappresenta la speranza, non illustra la luce: è semplicemente riemersa da un contesto di oscurità reale – la polvere, il silenzio, la distanza. La sua presenza fisica è già una testimonianza. È in questo quadro che va letta anche la doppia esposizione dell’artista: mentre Ab Ovo – Ippocampo è collocato a Palazzo Valentini, una seconda scultura, Ab Ovo – Rabbit, è visibile dal 12 luglio al 31 agosto presso il Castello di Santa Severa. Anche qui il principio è modulare, ma le condizioni espositive mutano: dalla sala chiusa alla luce serale del litorale, dalla riflessione interiore alla proiezione esterna. Sarebbe ingenuo trarre da tutto ciò una morale. Ma ciò che resta, osservando Ab Ovo – Ippocampo oggi, è un senso raro di oggettività. Non c’è nulla, in quest’opera, che invochi l’attualità per forza. Nulla che pretenda di spiegare o persuadere. La sua esistenza è già una forma di persistenza. E, per una volta, non si tratta di una metafora.
Roma, VIVE
CITTA’ APERTA 2025
ideata da Edith Gabrielli
con la cura di Roberto Koch e Alessandra Mauro
Roma, 25 giugno 2025
È nel silenzio solenne del Vittoriano, più ancora che nelle sue celebrazioni, che la città eterna si rivela per quella che è: un organismo vivo, mai fermo, ora contraddittorio, ora ieratico, ma sempre irriducibile a una sola immagine. La mostra Città aperta 2025, allestita nella Sala Zanardelli e ideata da Edith Gabrielli con la cura acuta di Roberto Koch e Alessandra Mauro, si muove precisamente in questa direzione: restituire a Roma la sua pluralità di sguardi senza mai tradirne la sostanza. Non un’esposizione, dunque, ma una riflessione fotografica sul tempo, sul rito e sullo spazio urbano come palinsesto. I tre autori convocati – Diana Bagnoli, Alex Majoli e Paolo Pellegrin – non si limitano a registrare il Giubileo del 2025 come evento, ma ne scandagliano le crepe, i riverberi, le tensioni interiori. È la Roma che celebra e piange, che si stringe nei riti funebri di un Papa e si apre, poche settimane dopo, alla speranza solenne del nuovo pontificato. E se è vero, come sosteneva un grande antiquario dell’immagine, che la fotografia non è documento ma visione, allora queste duecento fotografie tracciano la mappa topografica di uno stato d’animo collettivo. Nel lavoro di Diana Bagnoli c’è la Roma dell’attesa, quella che pulsa nei canti delle comunità filippine in periferia, nei gesti lenti delle madri africane sedute ai giardini di Torpignattara, nelle liturgie improvvisate negli scantinati trasformati in cappelle. Il colore che adopera – mai decorativo, mai urlato – è materia simbolica, filtro devoto attraverso cui guardare l’invisibile. Non c’è folclore né retorica: i suoi pellegrini, anche i più anonimi, hanno la compostezza tragica di chi sa che il viaggio è un atto di fede prima ancora che di movimento. Alex Majoli, invece, costruisce Roma come scena. Ogni scatto è un proscenio, ogni composizione un’azione tragica. La luce che usa – simile a quella dei fari teatrali – isola i soggetti e li rende archetipi. C’è un pathos borghese, quasi borromaico, nei suoi ritratti della folla; eppure mai distacco, mai compiacimento. In Majoli si sente la tradizione della pittura barocca, quel modo tutto romano di fare del quotidiano un enigma teologico. Anche quando la sua macchina si posa su una suora che mangia un gelato o un mendicante sotto un manifesto del Papa defunto, ciò che traspare non è la cronaca, ma la vertigine del tempo che ritorna. Il terzo sguardo, quello di Paolo Pellegrin, è il più mobile, il più instabile e, forse, il più intimo. Roma, nelle sue immagini, non è solo luogo: è memoria, detrito, eco. Pellegrin entra nei margini e ne fa centri, attraversa il fiume e i suoi argini con uno sguardo da rabdomante. Le sue periferie – Ostiense, Primavalle, l’Appio – si piegano e si dilatano fino a diventare paesaggio dell’anima. Si direbbe che la sua fotografia non voglia catturare, ma lasciare accadere. Come se il fotogramma fosse già passato attraverso l’occhio, il cuore e infine la mano. Il percorso espositivo, distribuito su due piani, evita ogni trionfalismo didascalico. Le immagini non illustrano, evocano. Non seguono un ordine lineare, ma compongono un contrappunto visivo in cui ogni autore dialoga con gli altri, contraddicendoli, confermandoli, superandoli. E qui la curatela è chirurgica: la mano invisibile che guida senza mai imporsi. Le tre videointerviste firmate da Paolo Freschi, discrete e nitide, completano l’apparato espositivo come una forma di controcanto audiovisivo. Ma il colpo di grazia – e uso l’espressione in senso salvifico – è dato dal testo inedito di Valerio Magrelli che scorre, lento e oracolare, su un grande ledwall. Non si tratta di un semplice accompagnamento poetico, ma di un controtesto che sposta la lettura, suggerendo sottotesti, rimandi e chiose. Magrelli non spiega, scava: ed è in questo gesto, antico e insieme modernissimo, che la mostra trova la sua cifra più autentica. Infine, quasi a voler sigillare questa sinfonia di sguardi, il giardino di Palazzo Venezia si offre come estensione all’aperto del progetto. I totem fotografici qui disposti non sono solo apparati didattici ma forme architettoniche di presenza: monoliti urbani che restituiscono alla città la propria immagine, come specchi opachi, mai concilianti. Città aperta 2025 non è una mostra sul Giubileo, né su Roma. È una mostra sull’atto del guardare, sul gesto del riconoscere, sull’urgenza del comprendere. I tre fotografi convocati non offrono soluzioni né interpretazioni rassicuranti. Offrono testimonianze, nel senso più profondo del termine: essere testimoni è, in fondo, un atto di responsabilità. E il VIVE, con questa iniziativa, dimostra ancora una volta di non volersi limitare al ruolo di custode della memoria, ma di voler esercitare una funzione critica nel presente. Come direbbe qualcuno, in questa mostra non c’è nulla di più contemporaneo dell’eternità.
Roma, Teatro Ostia Antica Festival 2025
EDIPO RE
di Sofocle
traduzione Gianni Garrera
adattamento e regia Luca De Fusco
con Luca Lazzareschi (Edipo, Tiresia, Servo di Laio),
Manuela Mandracchia (Giocasta), Paolo Serra (Creonte),
Francesco Biscione (Sacerdote Corifeo),
Paolo Cresta (Nunzio Corifeo),
Alessandro Balletta (Messo Corifeo)
scene e costumi Marta Crisolini Malatesta
disegno luci Gigi Saccomandi
musiche Ran Bagno
creazioni video Alessandro Papa
produzioneTeatro di Roma – Teatro Nazionale
Il viaggio nelle Antigoni inizia, dal 2 al 6 luglio con l’Edipo Re, con la regia di Luca De Fusco, una rilettura in chiave “thriller” psicoanalitica del classico di Sofocle, dove i personaggi, avvolti nell’oscurità e tormentati da una maledizione, esplorando temi come l’identità, la colpa e il destino. Un’analisi profonda dell’animo di Edipo, interpretato da Luca Lazzareschi, che indaga la verità prestando il corpo anche ad altri personaggi chiave. Al suo fianco, Manuela Mandracchia interpreta una Giocasta intensa e complessa, figura centrale nella tragedia di Edipo e madre di Antigone. La regia, ispirata al surrealismo e al cinema thriller del Novecento, vede Edipo confrontarsi con immagini distorte di sé proiettate in video. Edipo Re anticipa la vicenda di Antigone, figlia incestuosa di Edipo e Giocasta, legando indissolubilmente le due tragedie. Lo spettacolo è arricchito da un cast che include Paolo Serra (Creonte), Francesco Biscione (Sacerdote Corifeo), Paolo Cresta (Nunzio Corifeo), Alessandro Balletta (Messo Corifeo). Qui per tutte le informazioni.
Milano Teatro alla Scala, stagione d’opera e balletto 2024-25
“SIEGFRIED (Der ring des Nibelungen)
Seconda giornata in tre atti. Testo e musica di Richard Wagner
Siegfried KLAUS FLORIAN VOGT
Mine WOLFGANG ABLINGER-SPERRHACKE
Der Wanderer MICHAEL VOLLE
Alberich ÓLAFUR SIGURDARSON
Fafner AIN ANGER
Erda CHRISTA MAYER
Brünnhilde CAMILLA NYLUND
Stimme der Waldvogels FRANCESCA ASPROMONTE
Orchestra del Teatro alla Scala
Direttore Alexander Soddy
Regia David McVicar
Scene David McVicar, Hannah Postlethwaite
Costumi Emma Kingsbury
Luci David Finn
Milano, 21 giugno 2025
Il Ring scaligero con la seconda giornata supera il giro di boa. Ad andare in scena è “Siegfried” la più luminosa e positiva delle opere della Tetralogia, la fiaba iniziatica di sapore proppiano in cui spira l’incontenibile vento della baldanza giovanile. Quasi un’oasi serena in cui per un istante tutto sembra ricomporsi e la maledizione dell’anello finalmente spezzarsi.
David McVicar realizza qui il migliore tra gli allestimenti di questo Ring, quello in cui più riuscita è la convergenza tra l’idea di fondo e la realizzazione scenica. Merito primo per le magnifiche scene realizzate con Hannah Postlethwaite. La capanna fucina di Mine di un realismo fantastico e come incastonata in una foresta cupa e contaminata in cui gli alberi sono spirali ritorte e rinsecchite, mostruose escrescenze di un mondo vegetale corrotto. La foresta riprende questi stilemi, un groviglio di rami imprigionano figure antropomorfe, giganti prigionieri mutati in ibridi vegetali ma anche una proiezione delle tante figure trinarie del ciclo. Alle spalle si apre la grotta di Fafner, anch’egli ormai corroso dalla maledizione, non drago ma inquietante mostro scheletrico che ripropone quella cappa di morte che già aleggiava nelle architetture ossee del Nibelheim. Fermamente legato a un’idea fisica del teatro, McVicar rinuncia ad artifici meccanici e affida all’uomo ogni componente. Servi muti muovono il mostro e animano le scenografie. Molto interessante la caratterizzazione dei vari personaggi e il lavoro attoriale. Particolarmente riuscita la caratterizzazione di Alberich che fa propri i caratteri del fool del teatro elisabettiano, specchio grottesco ma verace del potere fa del Nibelungo il rovesciamento di Wotan, rovesciamento che disvela l’ambigua natura del Signore del mondo e se si pensa solo a quanto simili suonano i temi dell’anello e della Walhalla si può facilmente capire quanto siamo prossimi al pensiero wagneriano. Molto interessante il lavoro su Mime di cui si coglie il lato comico e malevolo a un tempo che qui si unisce a un’ambiguità di genere che riprende i tenori comici en travesti dell’opera secentesca e la rilevanza scenica dato all’Uccello di bosco. Suggestive le luci di David Finn. I costumi di Emma Kinsbury fondono passato e presente, mitologia e suggestioni punk mantenendo però una coerenza d’insieme che unifica gli elementi più disparati in una lettura unitaria e perfettamente funzionale. Alexander Soddy offre una lettura dominata da un’irresistibile afflato vitalistico. I tempi sono decisamente sostenuti ma le scelte ritmiche sono controbilanciate da sonorità ampie, nobili, coloristicamente molto belle. Soddy ama esaltare la bellezza dei colori orchestrali, l’ampiezza delle melodie rese con una cantabilità quasi italiana. La sua è una lettura fatta di chiaroscuri accentuati, di sonorità piene, ricche, squillanti che si esaltano nei grandi squarci lirici dove l’intera Natura sembra cantare con l’orchestra. Quando richiesto sa però lavorare anche di bulino, la scena tra Mime e Wotan è un piccolo gioiello teatrale reso con ritmi guizzanti e sonorità leggere capacità di dare tutto il senso di grottesco contrasto che caratterizza la scena. L’annunciata indisposizione non sembra aver influito molto sulla prestazione di Klaus Florian Vogt, cui forse si può attribuire solo un po’ di prudenza nel I atto. Vogt e Siegfried? L’eroe germanico per antonomasia e una voce lirica, nobilissima, ma di certo lontana da turgori da heldentenor. Un incontro rischioso ma vinto proprio per la capacità di andare oltre la superficie. Siegfrid non è solo l’eroe ma anche – e soprattutto – un fanciullo ingenuo dominato dallo stupore per le meraviglie del mondo. E’ già un puro folle anche se ancora non è giunto il tempo della karuna capace di redimere il mondo. Vogt magari non darà una lettura sfolgorate della forgiatura di Nothung ma quanta poesia in quello sguardo incantato sulle bellezze dei boschi o nei sogni della madre perduta. Quanto più ricco, più vero è il personaggio così spogliato di superflue magniloquenze. Magnifico il Wanderer di Michael Volle. La voce è ancora sontuosa per timbro e colore e di una potenza autenticamente soggiogante. Interprete raffinatissimo coglie sia l’ironico distacco nei confronti con Mime sia la profonda commozione con cui consegna ai giovani eroi la redenzione del mondo. Veramente degni di un Dio, per forza e nitidezza, dizione e accento. Wolfgang Ablinger-Sperrhacke sfrutta una voce da tenore caricaturale per caratterizzare un Mime in punta di forchetta, in cui i tratti comici particolarmente evidenziati sono sempre attenuati da un fondo di malevola untuosità. Voce ricca e potente e accento scavato e protervo per l’Alberich di Ólafur Sigurdarson capace di far percepire l’abisso di sofferenza che si cela dietro all’odio che divora il nibelungo. Purtroppo logoro e sgraziato il Fafner di Ain Anger, già deludente nel Prologo. Camilla Nylund è più a suo agio rispetto alla precedente giornata. La natura più lirica della sua vocalità si adatta meglio alla grande scena finale di quest’opera che agli impeti della precedente. Gli acuti sono sempre un po’ fissi e il peso specifico non eccezionale ma la morbidezza del canto e la nobiltà dell’accento le concedono momenti d’innegabile suggestione. La figura radiosa e materna ben giustifica l’illusione di Siegfried di aver ritrovato la madre. Christa Mayer è un’Erda dal timbro caldo e dalla linea di canto morbida, venata di una sensualità che la rende credibile come madre delle Valchirie. Interprete sensibile riesce insieme a Volle a dare il giusto risalto teatrale alla scena iniziale del I atto, attraversata da fremiti e pulsioni vanamente contrastate. Francesca Aspromonte non solo gorgheggia in modo squisito la parte dell’Uccello di bosco ma in sintonia con la regia contribuisce a dare al personaggio un insolito spessore teatrale. Foto Brescia & Amisano
Dopo Nabucco e Aida, venerdì 27 giugno (21.30) va in scena La Traviata nell’elegante allestimento di Hugo De Ana, che mancava in Arena da nove anni. Una Parigi belle époque rivive sull’immenso palcoscenico areniano con un cast di stelle internazionali: Angel Blue, al suo debutto assoluto in Arena, Galeano Salas e Amartuvshin Enkhbat. E sul podio Speranza Scappucci a dirigere Orchestra e Coro di Fondazione Arena per la prima volta in un’opera, dopo il Requiem verdiano nel 2021.
Debutti e ritorni illustri anche nelle repliche del 5, 11, 19, 25 luglio e 2 agosto: Feola, Sierra, Scala, Korchak, Salsi e Tézier, e sul podio Ommassini.
Accanto a loro, apprezzati giovani ed esperti interpreti nelle parti di fianco: Sofia Koberidze è Flora, Francesca Maionchi Annina, Carlo Bosi il visconte Gastone, Gabriele Sagona il barone Douphol, Jan Antem il marchese d’Obigny, Giorgi Manoshvili il dottor Grenvil, gli esordienti Hidenori Inoue e Alessandro Caro, a cui si avvicenderanno nel corso delle repliche Matteo Macchioni, Nicolò Ceriani e Francesco Cuccia. Il Ballo areniano, coordinato da Gaetano Bouy Petrosino, animerà le feste dell’opera secondo le coreografie di Leda Lojodice, mentre l’Orchestra di Fondazione Arena e il Coro preparato da Roberto Gabbiani.
La Traviata, nell’edizione creata da Hugo De Ana per il Festival 2011, Anniversario dell’Unità d’Italia, inizia come la fonte letteraria di Verdi: come nella Signora delle camelie, realmente esistita e raccontata da Alexandre Dumas figlio, si vede ciò che resta di Violetta, le ultime cose all’asta. Solo dopo, a ritroso, come in un sogno o un lungo flashback, conosciamo lei, il suo mondo, la sua storia. Le cornici vuote, colossali strutture finemente decorate di fine ‘800, prendono vita e si popolano di balli e feste. E se, per regia, costume e colpo d’occhio, la “fedeltà al libretto” è assicurata, gli elementi scenici sono anche altamente simbolici: specchi, arazzi e cornici inquadrano i diversi atti come opere d’arte, come una vicenda privata diventata mito. Quando il clamore pubblico tace e si spengono le luci, rimane lei, Violetta, al centro di tutto, nella sua parabola di amore e sacrificio.
«Un dramma intimo come quello di Traviata in uno spazio particolare come l’Arena, il palcoscenico più grande del mondo, è una sfida che offre mille possibilità ed altrettante difficoltà». Così Hugo De Ana presentava il proprio lavoro nel 2011. «Ho voluto ambientarla nella Parigi del 1890, periodo d’oro per il melodramma ma molto critico dal punto di vista sociale, che evidenzia la visione del dramma vissuta in prima persona da Verdi. Lo spettatore si troverà di fronte ad una pinacoteca smontata, […] uno spazio pieno e vuoto al tempo stesso, come la Parigi che si annida nel cuore di Violetta. Percorrerà l’opera il tema del ricordo. […] Violetta vince la morte con le sue stesse forze, è un personaggio eterno come l’amore è eterno, e la morte rappresenta solo l’immortalità dell’una e dell’altro».
Venezia, Teatro La Fenice, Lirica e Balletto, Stagione 2024-2025
“DIALOGUES DES CARMÉLITES”
Opera in tre atti e dodici quadri.
Musica e libretto di Francis Poulenc
dall’omonimo testo di Georges Bernanos
Le Marquis de La Force ARMANDO NOGUERA
Blanche, sa fille JULIE CHERRIER-HOFFMANN
Le Chevalier, son fils JUAN FRANCISCO GATELL
Madame de Croissy, la Prieure du Carmel ANNA CATERINA ANTONACCI
Madame Lidoine, la nouvelle Prieure VANESSA GOIKOETXEA
Mère Marie de l’Incarnation DENIZ UZUN
Soeur Constance de Saint-Denis VERONICA MARINI
Mère Jeanne de l’Enfant Jésus VALERIA GIRARDELLO
Soeur Mathilde LORIANA CASTELLANO
L’Aumônier du Carmel JEAN-FRANÇOIS NOVELLI
Officier GIANFRANCO MONTRESOR
I Commissaire MARCELLO NARDIS
Le Geôlier / Thierry / II Commissaire / Monsieur Javelinot FRANCESCO PAOLO VULTAGGIO
Orchestra e Coro del Teatro La Fenice
Direttore Frédéric Chaslin
Maestro del Coro Alfonso Caiani
Regia Emma Dante
Scene Carmine Maringola
Costumi Vanessa Sannino
Light designer Cristian Zucaro
Movimenti coreografici Sandro Maria Campagna
Nuovo allestimento Fondazione Teatro La Fenice in coproduzione con Fondazione Teatro dell’Opera di Roma
Venezia, 20 giugno 2025
Che Dialogues des carmélites rappresenti un titolo-chiave del repertorio operistico francese novecentesco, direttamente imparentato con Pelleas et Mélisande di Debussy, è un fatto ormai acquisito. Almeno presso quella parte di pubblico, in grado di apprezzare la valenza espressiva, derivante dalla stretta simbiosi tra parola e musica, che accomuna il capolavoro di Poulenc al dramma lirico debussyano, la cui conoscenza fu determinante per il giovane Francis. I Dialogues traggono la loro origine da una pièce di Georges Bernanos, pubblicata nel 1949, dopo la morte dell’autore, e divenuta poi – per intervento dello stesso Poulenc – un libretto d’opera, che ricalca da vicino il testo di Bernanos e procede dal punto di vista drammaturgico-musicale come un flusso ininterrotto, senza concessioni ai clichés tradizionali del melodramma. Dunque, il lavoro di Poulenc sarebbe riservato ad un pubblico in grado di comprenderne il raffinato linguaggio, caratterizzato da un continuum espressivo, che trova il suo apice nella scena finale del martirio? Forse. Ne era abbastanza convinto anche chi scrive. Almeno prima di aver assistito alla recente rappresentazione di questo capolavoro sul palcoscenico del Teatro La Fenice. Del resto, quando sul podio sale un profondo conoscitore del teatro musicale francese, il cast annovera voci di prim’ordine capaci di calarsi nel codice espressivo dell’autore, la regia si basa fondamentalmente sul rispetto del libretto senza rinunciare alla creatività, il miracolo può compiersi e uno spettacolo di qualità può arrivare a coinvolgere per quasi tre ore ogni spettatore. Più che sul clima repressivo, Emma Dante, coadiuvata dal suo storico staff, si concentra sul senso di libertà che le carmelitane – donne, prima che religiose – esprimono: condizionate da una fede fanatica, il loro martirio è anche una forma di liberazione. Lo è per Blanche che, sopraffatta dalla paura più che spinta da una vera vocazione, cerca rifugio nel convento: piena di vita e al tempo stesso fragile, al pari delle consorelle, si rivela alla fine la più coraggiosa. Elemento distintivo di questa messinscena è la fisicità, per quanto negata: se le suore coprono i loro corpi con una corazza alla Giovanna d’Arco e un elmo che pare un’aureola, la regista ce le mostra mentre si schiacciano i piedi con pesanti blocchi di pietra, proprio per sentire attraverso il dolore la propria corporeità. Fondamentale in questa prospettiva è la presenza ricorrente in palcoscenico del corpo di Cristo – impersonato da una danzatrice androgina –, fin dalla prima scena, in cui si vede Gesù scendere dalla croce. Il Salvatore – crocifisso con le sembianze di Blanche – riappare anche nella scena del martirio con esito davvero suggestivo. Lo spettacolo parte dalla casa di Blanche, un’aristocratica dimora, dove campeggiano enormi ritratti di Jean-Louis David, che raffigurano varie nobildonne dell’epoca, destinate, come la nobile fanciulla, a farsi suore. Quadri di cui in seguito non resterà che la cornice, ad indicare la cancellazione dell’identità, dovuta alla monacazione mentre, dopo che la ghigliottina avrà compiuto il suo esiziale lavoro torneranno semplici tele bianche. Nello spettacolo alla sontuosità di questa casa nobiliare si contrappone l’austerità del convento con le sue grate, i suoi ambienti chiusi, dove tutto impone il rinnegamento di sé fino all’estremo sacrificio. Irreprensibile la lettura di Frédéric Chaslin, che fa risaltare ogni aspetto della partitura, potendo contare su un’orchestra e su voci assolutamente all’altezza del loro compito. Il direttore francese si è confermato un profondo conoscitore del linguaggio di Poulenc, caratterizzato da ‘moduli’ e ‘formule’ ricorrenti, tra cui alcuni ‘leitmotive’ (la sequenza di due accordi corrispondente a un tragico cambio della situazione, il motivo che apre l’opera, ascendente e ansioso, associato al Marquis de la Force, e altri), oltre che da echi di Monteverdi, Verdi, Debussy, Musorgskij. Straordinaria, per peso vocale, fraseggio, finezza interpretativa Julie Cherrier-Hoffmann, nella parte di Blanche, di cui ha saputo rendere l’evoluzione psicologica: affranta dopo la morte della Prieure, eroica nel finale dell’opera. Analogamente degna di una fuoriclasse la prestazione di Anna Caterina Antonacci, nel ruolo di Madame de Croissy, la Prieure du Carmel, soprattutto nella scena della morte, dove – già apprezzata interprete in La Voix Humaine – si è distinta nel canto parlato. Encomiabili: Veronica Marini (una spontanea Soeur Constance de Saint-Denis, dalla tessitura ‘leggera’), Deniz Uzun (una protettiva – e vocalmente brunita – Mère Marie de l’Incarnation),Vanessa Goikoetxea (una dolce Madame Lidoine, la nouvelle Prieure), Valeria Girardello (Mère Jeanne de l’Enfant Jésus) e Loriana Castellano (Soeur Mathilde). Pregevoli Juan Francisco Gatell (Le Chevalier: bellissima la scena con la sorella Blanche) e Armando Noguera (Le Marquis de La Force). Positivo il contributo di Jean-François Novelli (L’Aumônier du Carmel), Gianfranco Montresor (Officier), Marcello Nardis (I Commissaire) e Francesco Paolo Vultaggio (Le Geôlier / Thierry / II Commissaire / Monsieur Javelinot). Eccellente per espressività e fraseggio la prova del coro, istruito da Alfonso Caiani. Da pelle d’oca la scena del martirio, in cui la ghigliottina sopprime ad una ad una le sfortunate sorelle emettendo un sinistro colpo come di frusta, mentre esse – in numero sempre minore – intonano uno struggente “Salve Regina”. Indimenticabile? Ebbene sì!
Freue dich, erlöste Schar BWV 30 è la terza ed ultima Cantata a noi pervenuta dedicata alla festa di San Giovanni Battista. Eseguita probabilmente il 24 giugno del 1738, questa partitura, una delle più ampie del repertorio delle Cantate bachiane è il rifacimento di un lavoro profano (BWV 30a), creato nel settembre del 1737 per onorare un alto funzionario di Corte, Johann Christian Hennicke. La Cantata, divisa in 2 parti, si compone di 12 numeri, uno in meno dell’originale profano. A parte l’aggiunta del Corale che chiude la prima parte, gli unici brani nuovi sono i 4 recitativi, tutto il resto, con lievi modifiche segue l’originale profano. Si è ventilata anche l’ipotesi che Bach abbia potuto lavorare contemporaneamente sul testo profano, scritto da Christian Friedrich Henrici e sulla sua variante liturgica, cosa però assai poco probabile, visto il largo anticipo della festa in questione. Bach trasferisce in toto il discorso musicale che deve festeggiare un cittadino d’alto lignaggio, in un’opera che deve festeggiare la ricorrenza del Battista attraverso una ben calcolata successione di numeri di danza. I cori sono dei “rondeau” in ritmo di “bourrée” e le arie hanno tutte l’impronta di un movimento di danza, chiaramente definito in due di esse, un “Passapied” il nr.3 (cantata dal Basso) e di “Gigue” il nr.10 (affidata al Soprano)
Parte Prima
Nr.1 – Coro
Rallegrati, popolo salvato,
rallegrati nelle dimore di Sion.
La tua prosperità è ora
solidamente stabilita,
ti è donato ogni benessere.
Nr.2 – Recitativo (Basso)
Abbiamo riposo,
il peso della Legge non ci grava.
Niente disturberà il nostro riposo,
che i nostri cari padri hanno
sognato, desiderato, sperato.
Allora, noi che possiamo, gioiamo
e intoniamo al Dio della nostra fede
un canto di lode, che riecheggi
da una voce all’altra in uno coro potente!
Nr.3 – Aria (Basso)
Lodato sia Dio, sia lodato il suo nome,
lui che mantiene fede alle sue promesse!
Il suo fedele servitore è venuto,
scelto da tempo per questo,
per preparare le vie del Signore.
Nr.4 – Recitativo (Contralto)
L’araldo viene per annunciare il Re,
egli proclama: non tardate,
mettetevi in cammino
con passo veloce,
presto, seguite la sua voce!
Ella ci mostra il cammino, ci mostra la luce,
che, un giorno, potremo contemplare
con le nostre sante preghiere.
Nr.5 – Aria (Contralto)
Venite, peccatori,
accorrete, figli d’Adamo.
il vostro Salvatore grida e vi chiama!
Venite, gregge disperso,
svegliatevi dal sonno del peccato,
poiché ora è il tempo del perdono!
Nr.6 – Corale
Una voce si ascolta
Alta e forte nel deserto,
per convertire tutti gli uomini:
preparate le vie del Signore,
spianate la strada a Dio,
il mondo intero si sollevi,
ogni valle sarà colmata
e ogni montagna abbassata.
Parte seconda
Nr.7 – Recitativo (Basso)
Così il mio Salvatore si preoccupa
di rispettare il patto
che fece con i nostri padri
e nella sua bontà di regnare su di noi;
per questo voglio applicarmi
con impegno,
o Dio fedele, a vivere secondo il tuo volere
in santità e timore di Dio.
Nr.8 – Aria (Basso)
Voglio respingere
e abbandonare tutto
ciò che è contrario a te, o Dio.
Non voglio affliggerti,
ma anzi amarti con tutto il mio cuore,
poiché tu vegli sempre su di me.
Nr.9 – Recitativo (Soprano)
Benché l’incostanza
sia propria della debolezza umana,
eppure bisogna affermarlo:
così spesso come l’aurora sorge,
cosi come un giorno succede all’altro,
così io voglio con costanza e fermezza,
per il tuo Spirito, mio Dio,
vivere interamente per onorarti.
Il mio cuore così come la mia bocca
secondo il patto che abbiamo stabilito
si eleveranno per darti lode.
Nr.10 – Aria (Soprano)
Presto, ore, correte
non tardate a portarmi a queste preghiere!
Con il popolo santo, voglio
elevare un altare di ringraziamento al mio Dio
nelle dimore di Kedar,
così da essere riconoscente in eterno.
Nr.11 – Recitativo (Tenore)
Pazienza, il giorno benvenuto
non può tardare ad arrivare,
quando da tutti i tormenti
e le imperfezioni del mondo
che ti tengono prigioniero, mio cuore,
sarai completamente liberato.
Le attese saranno infine esaudite,
quando con le anime radunate
nella perfezione
sarai liberato dalla morte del corpo,
non dovrai più temere alcun male.
Nr.12 – Coro
Rallegrati, popolo salvato,
rallegrati nelle dimore di Sion.
Il tempo della gioia,
il tempo della tua felicità
non avrà mai fine.
Traduzione Emanuele Antonacci
Roma, Museo Etrusco di Villa Giulia
UNA STORIA INFINITA. ARTE ORAFA DA CASTELLANI A BVLGARI
Roma, 23 giugno 2025
La mostra Una storia infinita. Arte orafa da Castellani a Bvlgari, recentemente inaugurata presso il Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia, non si configura come un semplice itinerario espositivo, bensì come un’operazione di scavo nella memoria profonda dell’Italia premoderna, una meditazione per oggetti su quella lunga durata dell’identità culturale che trova nella forma artistica il proprio sigillo simbolico e morfologico. L’esposizione, resa possibile da un’intelligente e lungimirante sinergia tra il Ministero della Cultura e la Fondazione Bvlgari, intreccia in un’unica trama auratica l’oreficeria etrusca, il revival neoclassico ottocentesco e le reinvenzioni contemporanee del lusso romano, tracciando un filo d’oro che attraversa i secoli con la continuità di un tema musicale sottoposto a infinite variazioni. L’oro, materia per eccellenza incorruttibile, metafora dell’eterno e dell’assoluto, si fa qui sostanza narrante, documento primario di un’antropologia estetica che dall’Etruria giunge sino alle vetrine novecentesche di via Condotti. È un oro che non scintilla soltanto, ma che parla, che pesa, che custodisce in sé la grammatica perduta dei gesti rituali e la sintassi sontuosa dell’identità nobile. Non si tratta dunque di una mostra sull’ornamento, ma di una riflessione stratificata sull’ontologia dell’ornare: sul bisogno umano, antico quanto la sepoltura e il canto, di affermare mediante la forma la propria appartenenza a un mondo intelligibile. Villa Giulia, con la sua nobile architettura cinquecentesca concepita da Vignola, Vasari e Ammanati, si rivela in questo contesto cornice non ornamentale ma strutturale: non semplice contenitore, ma dispositivo critico di lettura.Essa stessa luogo-palinsesto, già corte papale e ora museo, diventa teatro silenzioso di una civiltà che ancora ci interroga dal profondo delle urne, dei diademi e delle fibule. Il progetto curatoriale non si limita a giustapporre opere in sequenza cronologica, ma disegna un vero e proprio campo di forze, in cui gli ori etruschi dialogano con quelli dei Castellani, e questi ultimi, a loro volta, si rispecchiano nelle geometrie fluide e nelle campiture cromatiche dei pezzi firmati Bvlgari. Gli Ori Castellani – apice dell’archeologismo ottocentesco e manifesto della rinascita identitaria post-unitaria – assumono qui il ruolo di cerniera semiologica: figli devoti dell’antico, essi ne custodiscono le tecniche (granulazione, filigrana, cesello), ma ne trasfigurano i significati in funzione di una modernità ideale e colta, erede tanto dell’erudizione antiquaria quanto dell’estetica neoclassica. Fortunato Pio e Alessandro Castellani, con la loro straordinaria operazione di restituzione della forma etrusca, compirono un gesto che potremmo definire di filologia creativa, ponendo la propria bottega – vera e propria scuola di pensiero e di mestiere – al crocevia tra scavo archeologico, produzione artistica e costruzione della memoria nazionale. Le creazioni della Collezione Heritage Bvlgari, che in mostra risuonano accanto a questi capolavori ottocenteschi, non sono da intendersi come appendici glamour o vezzi postmoderni, bensì come epifanie di una continuità inattesa, come variazioni stilistiche di un medesimo codice originario. In esse, l’eco dell’etrusco e del classico non è mai imitazione sterile, ma materia viva, ricodificata attraverso un linguaggio plastico che attinge all’opulenza mediterranea, alla monumentalità romana, al barocco solare della capitale. Le spille, i pendenti, le collane firmate Bvlgari parlano la lingua di un lusso colto, consapevole, quasi archetipico, che restituisce al corpo moderno il rango sacrale che possedeva in antico. Tale corrispondenza tra forme lontane nel tempo ma vicine nello spirito trova fondamento non soltanto nella scelta degli oggetti, ma anche nella loro illuminazione: l’intervento di relamping finanziato dalla Fondazione Bvlgari non è un mero adeguamento tecnico, bensì un atto museologico fondativo, che restituisce profondità plastica, intellegibilità formale e densità emozionale ai manufatti esposti. La luce, come l’oro, non è decorazione, ma epifania: consente agli oggetti di manifestarsi nella loro completezza e al visitatore di accedervi non da spettatore, ma da testimone. Nel contesto di questa rinnovata alleanza tra pubblico e privato, che non si limita alla conservazione ma si estende al volontariato culturale e all’educazione patrimoniale, il museo archeologico riconquista la propria funzione originaria: non mausoleo, ma luogo di trasmissione civile, non archivio del passato ma corpo vivo della comunità. Questo allestimento si propone allora come paradigma di un metodo: quello che considera la bellezza come documento, la materia come narrazione, l’ornamento come architettura simbolica. Nella sala , si è colpiti non tanto dalla varietà dei pezzi, quanto dalla coerenza profonda del loro disporsi nel tempo e nello spazio. È come se, nel gioco dei rimandi formali e delle citazioni iconografiche, si celasse una partitura unica, antica e sempre nuova, che attraversa le epoche come un fiume carsico: ora visibile, ora nascosto, ma sempre presente. In questo senso, l’arco che va dagli artigiani etruschi ai maestri orafi del XXI secolo non è una parabola discendente né una linea spezzata, ma una curva continua, che si avvita attorno a un nucleo inalterabile: il desiderio umano di dare forma alla luce. Ecco perché questa mostra, lungi dall’essere una celebrazione estetizzante o un’operazione di marketing culturale, si presenta come un esercizio di responsabilità. Perché riattivare la memoria dell’oro non significa soltanto ammirarne la bellezza, ma riconoscerne il potere simbolico: quello di connettere, di durare, di illuminare. In un’epoca smemorata, in cui il consumo della forma spesso soppianta il rispetto per la sua origine, Una storia infinita ci invita, con raro equilibrio, a rallentare lo sguardo e ad ascoltare il racconto che la materia, in silenzio, continua a tramandare.
Teatro dell’Opera di Roma – Stagione Lirica 2024/2025
“CARMEN”
Opera in quattro atti dal romanzo di Prosper Mérimée
libretto di Henri Meilhac e Ludovic Halevy
Musica di Georges Bizet
Carmen GAELLE ARQUEZ
Don José JOSHUA GUERRERO
Escamillo ERWIN SCHROTT
Micaela MARIANGELA SICILIA
Frasquita MEGHAN PICERNO
Mercédès ANNA PENNISI
Le Dancaire ALESSIO VERNA
Le Remendado BLAGOJ NACOSKI
Zuniga NICOLAS BROOYMANS
Moralès MATTEO TORCASO
Coro e Orchestra del Teatro dell’Opera
con la partecipazione del Coro di Voci Bianche del Teatro dell’Opera
Direttore Omer Meir Wellber
Maestro del Coro Ciro Visco
Regia Fabio Ceresa
Scene e Costumi Renato Guttuso
Luci Giusepe di Iorio
Movimenti Mimici Mattia Agatiello
Scene ricostruite da Alessandro Nico
Costumi ricostruiti da Anna Biagiotti
Allestimento del Teatro dell’Opera di Roma riproposto nella versione storica del 1970
Roma 21 giugno 2025
Per i 150 anni dalla morte di Georges Bizet e dalla prima di Carmen, l’Opera di Roma ripropone l’allestimento storico del 1970, ripreso solo una volta nel 1973 con le scene e i costumi firmati da Renato Guttuso e all’epoca con la regia di Sandro Bolchi. Lo spettacolo per molti versi frutto delle inquietudini ideologiche del sessantotto allora fece molto discutere anche per la presenza della protagonista, la brava e bellissima Grace Bumbry, con la gonna corta e le gambe esposte cosa che fece passare lo spettacolo nelle cronache del tempo come la “Carmen in minigonna”. Per questa ripresa il Teatro ha compiuto una imponente opera di ricostruzione delle scene andate perdute nei decenni intercorsi curata da Alessandro Nico basandosi sulle foto dell’epoca ed ha catalogato e in gran parte ricreato tutti gli oltre trecento costumi sopravvissuti grazie all’ottimo lavoro di Anna Biagiotti basato sui costumi stessi, sui bozzetti in bianco e nero oggetto di una pubblicazione e sull’unico bozzetto a colori esistente custodito presso la Fondazione Guttuso. Essendo cambiata nel tempo la fisicità degli italiani molti costumi sono stati realizzati ex novo non essendo di fatto più utilizzabili e la loro ricca varietà cromatica ben ha contribuito a restituire la vivacità e il clima mediterraneo e non segnatamente spagnolo di questo spettacolo ambientato nel meridione italiano degli anni 70. Per questa importante ricorrenza la regia è stata affidata a Fabio Ceresa al suo debutto a Roma il quale volendo mantenere lo spirito di impegno civile dello spettacolo attualizzandolo, pone l’accento su temi in voga oggi quali il patriarcato, la libertà e il rifiuto delle regole imposte, riassunti nella famosa frase scritta sui muri della Sorbona e, se non abbiamo letto male dal nostro posto di platea, da una ragazza inseguita da un soldato che recita “Vietato Vietare”. Nell’insieme pur con una certa staticità e l’apparente incongruenza di alcune trovate, lo spettacolo funziona e sia il colpo d’occhio ad apertura di sipario che i movimenti curati da Mattia Agatiello risultano gradevoli e soprattutto ben integrati con la musica. La direzione è stata affidata al maestro Omer Meir Wellber il quale con singolare dominio tecnico, piglio e una ricchezza nell’agogica e nella timbrica declinate in infinite e talvolta inattese variazioni unite ad una concertazione nitida e chiarissima, guida l’orchestra in una narrazione dal ritmo serrato ma non dimentico dell’involo melodico. Splendida la prova del coro diretto dal maestro Ciro Visco per omogeneità di suono, bellezza timbrica ed intenzioni musicali in buon equilibrio con l’orchestra nonostante alcune scelte di tempo non facili. Bravo anche il coro delle Voci Bianche simpaticamente immedesimato ed in linea con le indicazioni esecutive. E veniamo agli interpreti vocali di questa serata. Gaelle Arquez ha dato la sua avvenente figura e soprattutto la sua raffinata musicalità al personaggio del titolo realizzandone tuttavia un ritratto un po’ troppo aristocratico, costruito più che correttamente ma nei fatti estraneo alla istintività di Carmen. Joshua Guerrero dal canto suo è stato un Don Josè corretto vocalmente ma di scarso slancio e poca passionalità, con il risultato di tener bassa la temperie emotiva della recita. Assai brava viceversa è stata Mariangela Sicilia nel rendere la dolcezza ma anche la determinazione di Micaela grazie ad una voce ricca di colori, un fraseggio elegante e una voce sempre ben udibile anche nei pianissimi più delicati. Infine mattatore della serata per carattere del ruolo, magnetica presenza scenica e peso vocale è stato il basso baritono Erwin Schrott nei panni di Escamillo. Molto validi infine sotto il profilo vocale e scenico sono sembrati tutti gli interpreti dei numerosi ruoli minori fra i quali vogliamo ricordare Meghan Picerno e Anna Pennisi rispettivamente Frasquita e Mercedes, Alessio Verna Le Dancaire, Blagoj Nacoski Le Remendado, Nicolas Brooymans Zuniga e Matteo Torcaso Moralès. Lunghi e calorosi applausi soprattutto per il coro e il direttore d’orchestra alla fine di una recita nel complesso di indubbio valore e di particolare interesse culturale ma forse priva di quella tensione emotiva che rende indimenticabili alcune interpretazioni. Fabrizio Sansoni-Teatro dell’Opera di Roma
Leopold Antonín Koželuch (1747–1818): Ariette italiane, Op. 31 (1790); Franz Joseph Haydn (1732–1809): Sonata for Fortepiano in E major, Hob. XVI:31 (1776); Leopold Antonín Koželuch Cantate auf Marie Theresie Paradis (1784) [Libretto: Gottlieb Conrad Pfeffel]; Franz Joseph Haydn: Sonata for Fortepiano in E-flat major, “Genzinger”, Hob. XVI:49 (1790). Karoline Pilcz (soprano). Richard Fuller (fortepiano). Registrazione: 1-3 novembre 2023 presso la Marble Hall of the Collection of Historic Musical Instruments, Neue Burg, Vienna. T. Time: 61′ 22″. 1 CD Gramola 99299
Non capita spesso e anzi è una situazione più unica che rara che ad essere protagonista di una produzione discografica sia uno strumento musicale e non gli interpreti o i compositori. Questo è il caso di questa proposta discografica dell’etichetta Gramola il cui protagonista è appunto un fortepiano storico realizzato da Johann Schantz, che, appartenuto a Erich Fiala, un collezionista austriaco, il quale fece restaurare quasi tutti gli strumenti in suo possesso, che tra l’altro erano suonati dalla moglie Isolde Ahlgrimm in concerti che si tenevano a casa sua, fu da questi venduto al Kunsthistorisches Museum nel mese di febbraio del 1939 perché versava in un tale stato di degrado che sembrava fosse impossibile riportarlo alle condizioni originarie. In realtà gli specialisti del Museo riuscirono a restaurare questo fortepiano che dovrebbe essere uno dei primi strumenti costruiti nell’ultimo decennio del Settecento da Johann Schantz, la cui impresa agli inizi del XIX sec. godette, peraltro, di una fama internazionale. Su questo bellissimo e storico strumento sono eseguite alcune composizioni risalenti all’epoca della sua costruzione e in particolar modo le Ariette italiane, Op. 31 (1790) e la di Leopold Antonín Koželuch e la Cantate auf Marie Theresie Paradis (1784) [Libretto: Gottlieb Conrad Pfeffel nelle quali il fortepiano accompagna il soprano Karoline Pilcz, sfoggia una voce luminosa e una bella di canto perfettamente in linea con agli aspetti espressivi del genere cameristico. Completano il programma due sonate di Haydn (la Sonata in mi maggiore, Hob. XVI:31 del 1776 e la Sonata in mi bemolle maggiore “Genzinger”, Hob. XVI:49 del 1790), nelle quali è possibile apprezzare il bel suono di questo strumento, sonoro nei gravi e brillante sugli acuti. Ottima l’esecuzione al fortepiano da parte di Richard Fuller che accompagna con discrezione senza mai soverchiarla la Pilcz e nelle sonate mostra una solida tecnica nei tempi rapidi e un bel tocco in quelli lenti, come lo splendido Adagio e cantabile della Sonata in mi maggiore.
La terza delle tre Cantate bachiane destinate alla prima domenica dopo la Trinità è “Brich dem Hungrigen dein Brot”BWV39 (Lipsia, 23 giugno 1726), esorta al tema dell’amore per il prossimo, in combinazione con la parabola dell’uomo ricco che, se condividerà ciò che possiede con i meno fortunati, si assicurerà la grazia agli occhi del Signore. L’appello alla generosità nel dare da mangiare agli affamati è enfatizzato nel testo del coro d’apertura, utilizzando la lettura biblica da Isaia (58, 7-8). Come in molte cantate del terzo ciclo di Bach a Lipsia, l’enorme coro iniziale (Nr.1)domina l’opera. Le brevi note dei flauti dolci, degli oboi e degli archi possono essere lette come lo spezzare del pane o, in modo più convincente, come le lacrime degli affamati. In ogni caso, l’orchestra fa da splendida cornice a quella che all’inizio è una fuga profondamente sentita ed emotiva e in seguito un’energica “chiamata alle armi”. Il recitativo del basso (Nr.2) ha toni solenni di un sermone. Segue una bella aria del contralto (Nr.3) con violino e oboe obbligati, una visione interiore e straordinariamente pura delle toccanti parole del testo che parla di imitazione della misericordia del Signore, con la metafora della semina sulla terra di quei semi che raccoglieremo dopo la morte. Queste due chiare immagini sono catturate dalla musica: quella dell’imitazione (l’oboe segue costantemente il violino) e la dispersione di semi fertili (il vocalizzo sulla parola “streuet/seminare”). Toni severi, predicatori, per la breve aria del basso (Nr.4). L’aria del soprano (Nr.5) con flauto dolce si contrappone alla precedente con una toccante dolcezza quasi infantile. L’ultimo recitativo (N.6) del contralto è espressione personale del credente. Quasi in contrasto con la natura positiva del testo, questo recitativo è impostato per lo più in minore, forse ricordandoci la sfida della fede. Il corale finale, uno dei più semplici e diretti di Bach.
Prima Parte
Nr.1 – Coro
Dividi il pane con l’affamato,
e accogli nella tua casa i senza tetto,
vesti chi vedi nudo,
senza distogliere gli occhi da quelli
della tua carne.
Allora la tua luce sorgerà come l’aurora,
la tua ferita si rimarginerà presto,
davanti a te camminerà la tua giustizia,
e la gloria del Signore ti seguirà.
Nr.2 – Recitativo (Basso)
Il Dio generoso dona in abbondanza, a noi che senza di lui non avremmo neanche il respiro.
Tutto ciò che noi siamo, è suo;
egli dispensa i suoi beni,
ma non siamo noi soli a beneficiare
dei suoi tesori.
Essi sono la pietra di paragone
per farci capire
che egli dispensa ai poveri,
ciò che serve ai loro bisogni,
in quanto la sua mano clemente ci distribuisce a
profusione il necessario per loro.
I beni che ci ha donato non dobbiamo restituirglieli
con l’interesse nei suoi granai;
più che le offerte, la carità praticata
verso il prossimo sa toccare il suo cuore.
Nr.3 – Aria (Contralto)
Essere sulla terra simili al creatore,
in piccola misura,
vuol dire essere beati in anticipo.
Imitare la sua misericordia
è seminare quaggiù chicchi di benedizione
che lassù mieteremo.
Seconda Parte
Nr.4 – Aria (Basso)
Non scordatevi della beneficenza e di far parte dei
vostri beni agli altri, perché di tali sacrifici Dio
si compiace.
Nr.5 – Aria (Soprano)
Altissimo, ciò che io ho
non è che un tuo dono.
Se io volessi presentarmi
davanti il tuo volto
ringraziandoti con i miei beni,
tu non desidereresti le mie offerte.
Nr.6 – Recitativo (Contralto)
Come posso restituirti pienamente, o Signore, ciò che
hai fatto per il mio corpo e per la mia anima?
Si, e ciò che riceverò ancora,
e non raramente, visto che continuo
a lodarti ad ogni ora?
Di me non ho niente che la mia anima da offrirti,
al prossimo, il desiderio di servirlo,
al povero, ciò che mi hai dato nella vita,
e alla terra, quando ti piacerà,
il mio povero corpo.
Ti offro ciò che posso, Signore
ti piaccia che un giorno io possa ricevere
ciò che mi hai promesso.
Nr.7 – Corale
Beati coloro che, nella carità,
si fanno carico dei bisogni altrui,
compatiscono con i poveri
e pregano fedelmente Dio per essi.
Coloro che aiutano con i loro consigli
e, quando possono, con i loro atti
riceveranno in cambio il tuo aiuto
e otterranno misericordia.
Traduzione Emanuele Antonacci
Roma, Parco Archeologico del Colosseo
MAGNA MATER TRA ROMA E ZAMA
Promossa dal Parco archeologico del Colosseo
in collaborazione con l’Institut National du Patrimoine Tunisien
è curata da Alfonsina Russo, Tarek Baccouche, Roberta Alteri, Alessio De Cristofaro e Sondès Douggui-Roux con Patrizio Pensabene, Aura Picchione e Angelica Pujia
Roma, 21 giugno 2025
“Ὦ θεά, μητρὸς μεγίστης ἀγαθῆς, πολυώνυμε σεμνή,
ὀυρανόθεν κατάγουσα, χθονία τε καὶ οὐρανία σύ”
(“O dea, grande Madre benefica, veneranda dai molti nomi,
tu che discendi dal cielo, terrestre e celeste insieme.”)
— Inni Orfici, 27.1-2
Là dove l’archeologia tocca il mito e la stratificazione simbolica delle culture, si apre lo spazio per riconoscere non soltanto resti materiali, ma anche il tracciato sotterraneo di un pensiero religioso arcaico che resiste sotto le sovrastrutture patriarcali della civiltà storica. La mostra dedicata alla Magna Mater – ospitata nei luoghi più significativi del Parco archeologico del Colosseo – non è solo un evento espositivo, ma una via di accesso a quel sostrato panmediterraneo che ha custodito, per millenni, l’immagine della Dea primigenia, nella sua forma più alta e terribile: madre, regina, montagna e terra insieme. Non si tratta di una divinità localizzata: Kybele, Cibele, Kubaba, Meter Theon, sono maschere linguistiche di un principio unico e trasversale, sopravvissuto alla frantumazione delle culture neolitiche e alle forme successive della religiosità imperiale. La Dea, come mostrano gli oggetti rituali, i rilievi e le iscrizioni, non veniva semplicemente venerata: veniva temuta, assunta, interiorizzata. Essa rappresentava la continuità tra nascita e morte, fecondità e distruzione, oscillando tra protezione e furia estatica. La sacralità del femminile è qui indagata attraverso sei tappe disposte nel tessuto del Foro e del Palatino, che diventano non semplici contenitori, ma punti focali di un’epifania archeomitica. Il Tempio della Magna Mater sul Palatino accoglie la memoria dell’evento che ha segnato la romanizzazione ufficiale della Dea: il trasferimento della sua pietra nera, aniconica e potentemente tellurica, da Pessinunte, nel cuore della Frigia, a Roma. Ma tale gesto non fu che una formalizzazione di un sentire molto più profondo. L’immagine lapidea, il suo stesso carattere privo di antropomorfismo, richiama l’origine prefigurativa delle forme divine: la roccia-madre, la montagna-feconda, il seno cosmico della Dea. Non è un caso che durante la fase più critica della Seconda guerra punica, il potere cercò nella Dea arcaica una rigenerazione alle sue origini matrici. La ritualità del trasferimento non è solo diplomatica o religiosa, è psichica. Integrare Cibele significava non solo acquisire un culto, ma rifondare l’intera impalcatura simbolica della città. L’importanza di questa mostra sta anche nel mostrare come la Magna Mater sia figura del continuum tra culture. La sezione allestita nel Tempio di Romolo, che espone per la prima volta i materiali rinvenuti a Zama Regia, in Tunisia, ne è testimonianza eloquente. La presenza del culto nel Nord Africa romano non è segnale di mera colonizzazione, bensì di una rispondenza simbolica profonda tra le religiosità matriarcali delle coste africane e quelle dell’Anatolia e del Mediterraneo orientale. Le iscrizioni, le immagini, gli oggetti mostrano non una replica, ma un’adesione sentita, un’integrazione organica. In questi contesti provinciali, il culto conserva la sua ambiguità sacra, accogliendo elementi sincretici ma senza perdere il nucleo originario: il tamburo, la danza, la figura del leone, i sacerdoti autoevirati, i galli, depositari di una saggezza iniziatica che travalica il binarismo sessuale. La figura del gallo, nella sua rinuncia alla virilità aggressiva, è un ritorno simbolico all’utero della Dea, alla totalità originaria. Nella Curia Iulia, sede tradizionalmente legata al potere istituzionale, si apre invece una riflessione sulla capillarità del culto nell’Impero. Da Palmira alla Britannia, da Cartagine a Lione, la Dea si manifesta in molteplici forme, spesso adattate alle culture locali ma sempre riconoscibili nella loro struttura simbolica: seduta tra le fiere, con corona turrita, tamburo e gesto ieratico. Anche nelle metamorfosi locali, la Magna Mater conserva la sua funzione di mediante tra il cosmo e l’umano, tra la disgregazione e l’armonia. Le Uccelliere Farnesiane ospitano la sezione più intensa sul piano misterico, esplorando le radici preclassiche e i tratti sciamanici del culto. Il mito di Attis, giovane pastore che si evirò per amore e divenne simbolo di rinascita vegetativa, è al centro di questo nucleo narrativo. L’autoimmolazione di Attis non è sacrificio fine a sé stesso, ma rito di passaggio, transito tra i mondi. È la simbolizzazione mitica del ciclo vegetale, ma anche della trascendenza del principio maschile nell’unità originaria del femminile sacro. Questa sezione offre una delle chiavi interpretative più profonde della mostra: il culto della Magna Mater non è solo culto di fecondità o di maternità terrena, ma espressione di un ordine simbolico matristico, dove la ciclicità domina sulla linearità, e la potenza creatrice è legata alla disgregazione e alla rinascita. Nel Ninfeo della Pioggia, il culto è restituito nella sua dimensione sonora e cinetica. I tamburi (tympana), le urla rituali, i suoni ipnotici fanno rivivere, seppur in forma ricostruita, la forza performativa del rito. Qui l’archeologia si apre all’esperienza sensoriale, riconoscendo che il sacro antico non era mai solo oggetto, ma esperienza vissuta, trasformativa, corporale. Non si adorava con lo sguardo, ma con il corpo e con l’intera coscienza. L’ultima sezione, ospitata nel Museo del Foro Romano, testimonia la persistenza della Dea nei secoli successivi. Tra Rinascimento e Seicento, in un’epoca di rinascita antiquaria, la figura della Magna Mater viene riletta in chiave allegorica, talvolta demonizzata, più spesso celata dietro simboli della regalità celeste. La sua energia, seppur trasformata, sopravvive: nei sogni degli alchimisti, nelle visioni dei filosofi, nei disegni degli eruditi. La mostra si configura come tracciato archeomitico della memoria femminile sacra, una memoria non domestica né addomesticata, ma potente e dinamica, capace di attraversare le culture e di sopravvivere sotto nuove maschere. Il cammino della Magna Mater – da Pessinunte a Roma, da Zama a Lione – è il cammino della Dea in esilio, sempre pronta a ritornare. Non per essere adorata come figura del passato, ma per ricordare che la Terra è viva, sacra e irriducibile, e che ogni cultura, se vuole fiorire, deve tornare al suo grembo. Photocredit Parco Archeologico del Colosseo
Roma, Palazzo Miglianelli 23
“ORIZZONTI/ROSSO”
Fondazione Valentino Garavani e Giancarlo Giammetti, PM23, 25 maggio
Curatela di Anna Coliva e Pamela Golbin
Roma, Palazzo Mignanelli 23, 18 maggio 2025
Si apre con una mostra dedicata all’esplorazione dei molteplici Orizzonti concettuali del Rosso il nuovo spazio di Piazza Mignanelli gestito dalla Fondazione Valentino Garavani e Giancarlo Giammetti. Dopo essere stato oggetto di un importante lavoro di rigenerazione urbana durato oltre un anno, lo storico palazzo un tempo sede della scuola e della tipografia di Propaganda Fide è messo a disposizione delle generazioni future, per legare l’eredità dei fondatori a un progetto di valorizzazione artistica e culturale, di sostegno a iniziative filantropiche e sociali, e di educazione e supporto del talento. Al centro dell’inaugurazione è un’ispirazione fondata sul valore della bellezza. Lo stilista e il suo socio imprenditore hanno dedicato le lore vite a celebrarla, guidati dall’idea che essa abbia il potere di elevare la vita delle persone e ora vogliono restituire al mondo ciò che proprio la bellezza ha donato loro. Il rosso, cui Valentino, ha dedicato una sorta di opera omnia, trasformandolo in un simbolo della sua stessa identità creativa, riassume l’essenza della sua visione, rende unica la sua firma. Da qui la decisione di selezionare ottanta opere disponendole in un susseguirsi di orizzonti, facendo riscoprire al visitatore i diversi strati che animano questo colore archetipico, ricco di significati poetici, onirici e simbolici. L’intento è quello di confrontarsi con la bellezza, l’identità, la superficie, il potere emotivo e onirico del rosso, riscoprendolo nel suo potere di forza trasformativa. Centrale diviene il rapporto tra moda e arte che nel percorso espositivo convergono al fine di creare un linguaggio e un’impressione unici, e fondamentale si rivela soprattutto l’influsso dell’espressionismo astratto sviluppatosi nel secondo dopoguerra e volto ad evocare il sublime attraverso colori audaci. Vi è infatti un particolare rapporto tra le opere di Lucio Fontana, Gerhard Richter, Alberto Burri, Helen Frankenthaler, Clyfford Still e Mark Rothko e la moda di Valentino, cui essi insegnano le declinazioni della materialità del rosso. Non si tratta qui solo di ammirare i classici abiti dalla forma a clessidra o dalla forma più allungata stile impero. La moda di Valentino, nei suoi abiti senza spalline, nelle scollature dos nu, nei fiori iconici sullo strascico, si ricollega alle declinazioni pittoriche degli artisti che hanno coabitato la sua immaginazione, ai loro tagli, alle loro sfocature e bruciature, alle loro macchie e spatolature, pur restando ancorata a una stilizzazione principale ben definita. Il rosso nel suo valore emotivo incoraggia poi Valentino ad esprimere la sua verità personale individuale e viscerale, facendo risaltare al contempo la fragilità dell’esistenza umana e la sua vulnerabilità, come nel dipinto Sand Dune (1983) di Francis Bacon. È invece Jean-Michel Basquiat, di cui sono esposti a Piazza Mignanelli i due capolavori Untitled (1982) e In This Case (1983) a farci percepire meglio la vivacità creativa di Valentino, mettendola in relazione con la street art e con il tema dell’ingiustizia razziale, nonché riportando alla mente l’arte africana in parallelo alle tradizioni occidentali. In Valentino, però, non si punta all’eccesso, ma alla continua semplificazione, al fine di pervenire alla perfezione strutturale. E le emozioni per lo stilista sono fluide e leggere, ispirandoci un senso di profonda intimità, di desiderio e di attaccamento emotivo, come nelle creazioni Laissée di Simon Hantaï o She Loves You di Damien Hirst con il suo motivo emblematico delle farfalle. Del resto, esponendo parti del corpo come il collo e le spalle e la schiena, Valentino non ha mai smesso di ricercare le risposte emotive di colui che guarda l’abito. Non si tratta dunque solo di silhouettes, ma di profonde visioni estetiche che si ridisegnano costantemente. E il finale del viaggio è una visione onirica, che collega passato, presente e futuro in una visione di bellezza definita dall’opera site-specific su larga scala dell’artista franco-canadese Thomas Paquet, che fonde fotografia e pittura incorniciando 24 abiti in un orizzonte mutevole di colore e luce. Un modo questo per riscoprire l’eredità dell’“ultimo imperatore”, che disegnando sotto l’ombra della tradizione cattolica di Piazza Mignanelli ha saputo vestire dive di rara bellezza, ispirando in loro un sentimento di filantropica umanità, e che adesso ritorna al passato per aprirsi definitivamente al futuro. Foto Fondazione Valentino Garavani e Giancarlo Giammetti
Chiuso il fine settimana inaugurale, il Festival lirico riparte dall’opera ‘regina’. Venerdì 20 giugno alle 21.30 va in scena all’Arena di Verona la prima rappresentazione di Aida. L’allestimento, definito ‘di cristallo’ per le superfici trasparenti e gli inediti giochi di luce, è curato in ogni aspetto da Stefano Poda, che fonde in scena una personale unione di antica simbologia egizia e alta moda contemporanea. La serata è già sold-out, così come il Nabucco del giorno successivo. Sul palcoscenico della prima stagionale troviamo il soprano Maria José Siri, Aida amata da Radames, interpretato dal tenore Luciano Ganci. Amneris il mezzosoprano Agnieszka Rehlis. Il resto del cast vede il Ramfis di Alexander Vinogradov, il Faraone di Simon Lim l’Amonasro del baritono Amartuvshin Enkhbat, titolare del Nabucco inaugurale. Negli altri ruoli il Messaggero di Carlo Bosi e la sacerdotessa di Francesca Maionchi. Sul podio areniano torna Daniel Oren, a dirigere l’Orchestra di Fondazione Arena e il Coro preparato da Roberto Gabbiani. Aida ‘di cristallo’, che sarà in scena fino al 4 settembre con grandi nomi che si alterneranno nelle varie recite.
102° Arena di Verona Opera Festival 2025
“NABUCCO”
Dramma lirico in quattro parti su libretto di Temistocle Solera
Musica di Giuseppe Verdi
Nabucco AMARTUVSHIN ENKHBAT
Ismaele GALEANO SALAS
Zaccaria ALEXANDER VINOGRADOV
Abigaille MARIA JOSE’ SIRI
Fenena FRANCESCA DI SAURO
Il Gran Sacerdote di Belo GABRIELE SAGONA
Abdallo MATTEO MACCHIONI Anna ELISABETTA ZIZZO
Orchestra, Coro e Ballo della Fondazione Arena di Verona
Direttore Pinchas Steinberg
Maestro del coro Roberto Gabbiani
Regia, Scene, Costumi, Luci e Coreografia Stefano Poda
Nuova produzione di Fondazione Arena di Verona
Verona, 14 giugno 2025
A due anni dalla controversa quanto innovativa Aida, tefano Poda torna a Verona per proporre il suo Nabucco definito “atomico”. L’atomo diviso dalla fissione nucleare genera due frammenti dalla polarità positiva che si respingono con violenza ad elevata energia cinetica salvo poi ricongiungersi nel finale; nella metafora di Poda le due polarità vogliono definire i due popoli in lotta, babilonesi ed ebrei, vincitori e vinti. Non solo, la scissione dell’atomo diventa anche l’allegoria della conquista scientifica che nelle mani sbagliate può portare morte e distruzione. L’esplosione atomica, il fungo terrificante paventato e tuttora di scottante attualità, avviene nel finale del secondo atto quando Nabucodonosor proclama la propria divinità ed uguaglianza al Dio di Israele; ma la scissione ci parla anche della ragione separata dal sentimento e dalla spiritualità, due forze che oppongono il popolo conquistatore e quello oppresso. Come già in Aida del 2023, qui Poda firma praticamente tutto: regìa, scene, costumi, luci e coreografie. Di quella Aida il regista recupera il praticabile di metallo e plexiglass sul quale sistema i due elementi semisferici (le due parti dell’atomo) tra i quali svetta una lunga scalinata sormontata da una clessidra con la scritta “Vanitas”, severo monito per cui nulla può opporsi al naturale scorrere del tempo che azzera ogni azione umana e sistema le cose. Una scenografia essenziale permette un cospicuo risparmio di tempo (e in effetti vi è un solo intervallo tra secondo e terzo atto) mentre i costumi tendono ad esaltare da una parte la ricerca del progresso (Babilonia), dall’altra il fiero anelito alla spiritualità e alla sostanza dell’essere (Israele): costumi tecnologici, in grado persino di illuminarsi per i babilonesi, semplici e basilari per gli ebrei. Tutto quanto esposto con efficacia nelle note di regia rimane però purtroppo sulla carta. La scena è affollata e confusa con mimi, ballerini, comparse e coro che si mescolano tra loro correndo nervosamente avanti e indietro e gettandosi continuamente a terra; del dramma originale desunto dalla Bibbia, tuttavia, non traspare pressoché nulla. Ma è un allestimento che appaga l’occhio del turista areniano, in cerca di continue emozioni di forte impatto visivo. Sotto l’aspetto musicale, non delude assolutamente Amartushvin Enkhbat, che conferma le sue doti preclare quali morbidezza vocale, precisione, fraseggio cesellato, espressione e piena padronanza di uno strumento che piega al servizio della parola scenica con una dizione chiara e limpida e rendendo un Nabucco regale ed autorevole. Da parte sua Maria José Siriveste i panni di Abigaille sottolineando con straordinaria efficacia la malvagità del personaggio svelandone tuttavia anche la fragilità emotiva con omogeneità vocale sempre controllata; una prestazione di grande livello ma frequentemente in contrasto con la regìa, tanto che a tratti il suo canto veniva fagocitato dai movimenti delle masse. Alexander Vinogradovè uno Zaccaria fiero oppositore e difensore del popolo d’Israele, con una caratterizzazione vocale adeguata alla parte che, non va dimenticato, ai tempi in cui Verdi scrisse l’opera risentiva ancora dell’influenza donizettiana. Negli altri ruoli, Galeano Salasè un Ismaele convincente e di corretta tenuta vocale, soprattutto nei concertati non avendo una vera e propria parte di rilievo come del resto Francesca Di Saurocome Fenena che però sfoggia un bel cantabile nella perorazione finale Già dischiuso è il firmamento. Il resto del cast vedeva Gabriele Sagona quale sacerdote di Belo, Matteo Macchioni come Abdallo ed Elisabetta Zizzo nei panni di Anna, ciascuno adeguato alla propria parte. Sul podio l’atteso ritorno di Pinchas Steinberg, a trentasei anni dal debutto areniano in Aida, che ha optato per una direzione comoda, forse fin troppo, più votata all’accompagnamento delle voci che al sostegno drammaturgico; i tempi allentati accendono poco fuoco per una partitura che non ha certo pretese sinfoniche ma che brilla per passione e vigore patriottico. Anche il coro, autentico protagonista dell’opera e diretto da Roberto Gabbiani, è apparso a tratti slegato e privo di mordente soprattutto nei momenti topici e perfino nel celebre ed atteso Va’ pensiero la cui esecuzione non ha suscitato alcun desiderio né richieste di bis (che in effetti non c’è stato). Pubblico numeroso, come tradizione areniana dell’apertura del festival, con applausi a scena aperta a tutti i protagonisti. Prossime recite il 21 e 28 giugno, 10, 17, 24 e 31 luglio, il 9, 16, 21 agosto e il 5 settembre. Foto Ennevi per Fondazione Arena.
Genova, Teatro Carlo Felice, Stagione 2024-2025
“DIE ZAUBERFLÖTE” (Il flauto magico)
Singspiel in due atti su libretto di Emanuel Schikaneder
Musica di Wolfgang Amadeus Mozart
Sarastro ANTONIO ARCILESI*
Tamino SAMUELE DI LEO*
Oratore/Primo Sacerdote LUCA ROMANO
Secondo Sacerdote/Primo Armigero GIANLUCA MORO
Regina della Notte MARTINA SAVIANO*
Pamina GABRIELLA INGENITO*
Prima Dama GESUA GALLIFOCO
Seconda Dama SILVIA CALIO’
Terza Dama ALENA SAUTIER
Tre geni ARIANNA RUSSO, VITTORIA TRAPASSO, ELIANA USCIDDA (soliste del Coro Voci Bianche del Teatro Carlo Felice)
Una Vecchia (Papagena) GIADA VENTURINI*
Papageno ERNESTO DE NITTIS*
Monostratos DAVIDE ZACCHERINI*
Secondo Armigero DAVIDE CANEPA
Tre schiavi THOMAS ANGAROLA, FEDERICO BENVENUTO, STEFANO PAVONE
*Solisti dell’Accademia di Alto perfezionamento e inserimento professionale dell’Opera Carlo Felice Genova diretta da Francesco Meli.
Orchestra, Coro e Tecnici dell’Opera Carlo Felice di Genova
Direttore Giancarlo Andretta
Maestro del coro Claudio Marino Moretti
Maestro del coro di voci bianche Gino Tanasini
Regia Daniele Abbado
Scene Lele Luzzati
Costumi Santuzza Calì
Luci Luciano Novelli
Coreografie DEOS
Allestimento della Fondazione Teatro Carlo Felice di Genova.
Genova, 15 giugno 2025.
La stagione del teatro genovese chiude con il gran successo (un trionfo) della Zauberflöte mozartiana. Apprezzabili e degne di lode la messa in scena e le prestazioni dei cantanti, a conferma dell’ottimo lavoro di Daniele Abbado e di Francesco Meli con l’Accademia, per cantanti d’opera del presente e per il futuro, promossa dal Carlo Felice. La messa in scena, a suo tempo progettata e disegnata da Lele Luttazzi, con i fantastici costumi di Santuzza Calì e le mitiche luci di Luciano Novelli, viene qui ripresa, con assoluta libertà di adattamento, dalla regia di Daniele Abbado che, in un entusiasmante stato di grazia, ha rinnovato l’incanto dell’immaginifica storia senza tempo. Lo sgangherato carrozzone che il duo Mozart-Schikaneder avevano, per necessità e per spasso, assemblato, si conferma ancora una volta, sulla piazza genovese, con le sue stratosferiche, e forse anche incoscienti, valenze, grazie ad una musica che tutto quel che bacia trasforma in cascata diamantifera. Il racconto mantiene le contraddizioni originarie per cui ci si domanda sempre chi siano in realtà questi personaggi, cosa rappresentino e perché ci mantengano incollati per tre ore alla sedia. La conclusione, se una proprio necessitasse, è che nulla ci importa dell’annullata razionalità del racconto, la carica di umana compassione, infusa dal duo letterato-musicista ha preso il sopravvento e ha reso personaggi e fatti per sempre vivi e paradigmatici. Nulla di più estraneo ai tempi in cui viviamo: tribolati, elettronici e cattivi. La sala domenicale del teatro Carlo Felice è stracolma, sonoramente entusiasta, con manifestazioni spontanee di apprezzamento, in specie da parte della molta gioventù presente, che ha colto l’essenza positiva ed entusiasmante dello spettacolo. Non ci sono parsi così convincenti i dialoghi mantenuti in tedesco: per un singspiel non dovrebbe essere impossibile adottare il bilinguismo con le parti musicate in originale e le recitate tradotte. Alla compagnia, esclusivamente italiana, si eviterebbe così di esibirsi in un tedesco improbabile e si garantirebbe alle molte battute esilaranti la comprensione e la risata di ricompensa. Gabriella Ingenito è un’ottima e sicura Pamina. Timbro, rotondo e piacevole per abbondanti e suasivi armonici. La tecnica è agguerrita e l’agire, sempre consapevole, è efficace. Il ruolo di Zerlina l’ha già cantato, pensiamo che Susanna possa essere una sua prossima tappa, visto l’espansione lirico-pateica che ha esibito nella scena del rischiato disperato suicidio. Inappuntabile e vivace nella lunga scena con l’irrefrenabile Ernesto de Nittis, Papageno dalle mille risorse sceniche, più artista da spettacolo “misto” che non “puro” cantante. Non propriamente un baritono, come genericamente lo si intende, ma un musicalissimo e multiforme artista che potrebbe spopolare in un musical o in una commedia musicale. Le sue due ariette hanno ripreso il carattere originario di canzonette popolari. Un Papageno senza le smancerie alla viennese e con la freschezza che sempre ci si augurerebbe di incontrare per il personaggio. Tamino, ovvero Samuele Di Leo, dà, per lunga tradizione, origine a tutti gli heldentenor dell’opera austro-tedesca. Da Lohengrin a Parsifal, passando da Sigfrido, quella è la strada che prima o poi i grandi Tamino hanno percorso. Di Leo ha timbro molto squillante e crediamo che Meli lo ha indirizzarlo correttamente. Dopo l’aria del ritratto si è ben meritato gli applausi che l’hanno gratificato. In tutte le recite del Flauto è poi sempre vivissima l’attesa per le due arie, dallo spregiudicato virtuosismo, della Regina della Notte. Martina Saviano ha pagato, con una certa stanchezza della chiusura, l’eccessiva irruenza e la grande generosità del porgere della prima aria “O zittre nicht…. Più cauta e più efficace in Der Hölle Rache ha conquistato con baldanza le approvazioni, forse eccessive, del pubblico. Allo stesso modo il Sarastro di Antonino Arcilesi ha colto nel segno con le richieste e perfettamente centrate note basse, pur se collocate in una vocalità che riporta all’asciuttezza poco espansa del basso-cantabile. Papagena Giada Venturini, soprano brillante, ha vivacizzato, con maestria sia da attrice che da cantante, tutta la sua prestazione e si è mostrata una partner ideale del Papageno di Ernesto de Nittis. Eccellenti e professionali tutti gli altri saliti sul palco, tra cui spiccano il Monostratos di Davide Zaccherini, l’Oratore di Luca Romano, le Dame Gesua Gallifoco, Silvia Caliò e Alena Sautier. Notevoli anche le giovanissime appartenenti al coro di voci bianche che hanno impersonato i tre Geni. I mimi e gli schiavi, coreografati da DEOS, si sono eccellentemente e vivacemente mossi. Il Coro del Teatro Carlo Felice con la guida di Claudio Marino Moretti, e l’altro equivalente di Voci Bianche con alla testa il Maestro Gino Tanasini, hanno esibito la consueta brillante efficacia di lavoro. Giancarlo Andretta, alla testa della sempre ottima ’Orchestra ell’Opera Carlo Felice, ha, con grande perizia e acquisita professionalità, accompagnato e supportato il gruppo di giovani artisti in scena, non trascurando gli abissi e soprattutto le vette di cui la scrittura mozartiana dissemina la partitura.