Roma, Teatro Quirino Vittorio Gassman
IL MEDICO DEI MAIALI
con Luca Bizzarri, Francesco Montanari, David Sebasti, Mauro Marino
testo e regia di Davide Sacco
scene Luigi Sacco
costumi Annamaria Morelli
luci Luigi Della Monica
musiche Davide Cavuti
aiuto regia Claudia Grassi
amministratore di compagnia Luigi Cosimelli
Ente Teatro Cronaca, LVF-Teatro Manini di Narni
Roma, 24 aprile 2025
Davide Sacco si muove come un rabdomante nella terra desolata del Potere. E nel suo Medico dei maiali, in scena al Teatro Quirino, cesella – tra le pieghe di Shakespeare e le fenditure gelide di Carl Schmitt – una favola nera che odora di stalla, di morte, di sovversione impossibile. Qui il Potere è una peste sottile: chi lo sfiora, chi tenta di guarirlo, ne resta contaminato irrimediabilmente. La scena si apre su un’immagine quasi beckettiana: un corpo in ginocchio, la resa e la morte consumate in pochi battiti d’occhio. “THE KING IS DEAD”, sibila il neon livido sopra le nostre teste: e già tutto è compiuto, già tutto è compromesso. Un re d’Inghilterra, mai nominato, cade trafitto non da un nemico ma da mani fidate, da consiglieri che si proclamano salvatori della patria. Nulla di nuovo, penserete. Eppure Sacco, con una lingua che frusta e accarezza, che si fa bisturi e veleno, ci racconta l’eterno ritorno della dissoluzione morale con una freschezza tanto feroce da sembrare antica. Per certificare la morte del sovrano – e il suo assassinio che deve restare impunito – non c’è un medico di corte, bloccato dalla tempesta. Arriva invece un veterinario di maiali (un meraviglioso Luca Bizzarri, capace di affondare il suo talento comico in una recitazione di acciaio e tenerezza), improvvisato coroner, testimone e al tempo stesso artefice di una rivoluzione abortita. Il suo avversario designato, Francesco Montanari, interpreta il principe ereditario Eddy: idiota, cocainomane, involontario clown vestito da nazista a un gay pride. Un Enrico V capovolto, che all’ardore idealista sostituisce la vanità fatuamente criminale. E in questo ribaltamento, Sacco piazza il suo capolavoro: Eddy, pupazzo nelle mani del veterinario, inizia a respirare il profumo inebriante del comando, mutando in tiranno il suo ghigno ebete. Sacco orchestra questo duello di metamorfosi – tra servo e padrone, tra burattinaio e burattino – con una scrittura che evoca, più che imitare, Shakespeare: il suo Riccardo III, il suo Enrico IV, ma anche la putrefatta bruma di Macbeth. E il riferimento a Schmitt non è affettazione, ma grimaldello: se il Potere è decisione sovrana, qui ogni decisione è già corrotta nella sua origine. Ogni scelta, ogni movimento è destinato a produrre altro fango. La regia, chirurgica e trattenuta, non indulge mai nel compiacimento. La scena di Luigi Sacco è scabra, soffocante come una stanza d’albergo in Galles sotto un cielo nero di pioggia, mentre le luci di Luigi Della Monica tagliano le figure come lame chirurgiche: non vi è scampo, né riparo. Solo il lento, irresistibile sprofondare nella spirale del dominio. Che cos’è, allora, Il medico dei maiali? È una fiaba oscena sulla impossibilità di redimere il potere; è una risata soffocata nel gorgo di una modernità in putrefazione. È, soprattutto, un apologo tragico su quel momento impercettibile – e fatale – in cui il carnefice scopre di amare il proprio potere più della propria umanità. Davide Sebasti e Mauro Marino, interpreti dei consiglieri assassini, innestano nelle pieghe della narrazione una dimensione ancora più torbida: quella della ragione di Stato, della necessità superiore che giustifica ogni crimine. E intanto il pubblico, inchiodato a una claustrofobia teatrale impeccabile, assiste alla progressiva scomparsa dell’innocenza. C’è qualcosa di irrimediabilmente nostro in questa Inghilterra fittizia, in questo teatro della crudeltà che ha il passo felpato di una commedia e il morso avvelenato di una tragedia. Come non pensare, dietro il costume da nazista di Eddy, allo scandalo che travolse il principe Harry? Come non riconoscere, nei ghigni e nelle smorfie dei potenti, l’eco grottesca delle nostre democrazie svuotate? Alla fine, resta solo il silenzio. Un silenzio colpevole, malsano, pieno di quei pensieri inconfessabili che lo spettacolo ha saputo suscitare. Il medico dei maiali non pretende di offrire soluzioni. Non predica, non consola. Ma incide – con la precisione di un chirurgo crudele – una domanda nella carne viva dello spettatore: siamo anche noi parte di questo meccanismo? E se sì, a quale prezzo? È uno di quegli spettacoli rari, necessari, che riescono a raccontare la miseria e la grandezza dell’essere umano senza filtri, senza orpelli, senza bugie. E per questo, come accade con i veri capolavori, ci costringe – una volta usciti dal teatro – a camminare più lentamente, a pensare più a lungo, a guardare negli occhi la nostra personale ombra.
La prima domenica dopo la Pasqua, correttamente indicata nei libri liturgici con il termine in “Octava Paschae” oppure Domenica in “Quasi modo”, dalla prima dell’Introito (Quasi modo géniti infántes, rationábile, sine dolo lac concupíscite, ut in eo crescátis in salútem, allelúia, – Come bambini appena nati desiderate il genuino latte spirituale: vi farà crescere verso la salvezza. Alleluia) nota popolarmente con l’espressione Dominica in Albis, dalla consuetudine della chiesa cristiana dei primi secoli di amministrare il Battesimo, Domenica in albis vestibus depositis, la domenica in cui le bianche vesti vengono deposte, con riferimento alle tuniche bianche indossate dai nuovi battezzati per tutta la settimana successiva alla Pasqua, e tolte, appunto, la domenica dopo Pasqua. quando si procedeva al battesimo dei catecumeni che deponevano la veste per immergersi nella vasca e ricevere in tal modo il sacramento che segna l’ingresso ufficiale del credente nella Chiesa. Al battesimo fa riferimento una delle letture del giorno, tratta dalla prima lettera di Giovanni cap.5, vers.6-8: “Egli è colui che è venuto con acqua e sangue, cioè Gesù Cristo; non con acqua soltanto, ma con l’acqua e con il sangue. Ed è lo Spirito che ne rende testimonianza, perché lo Spirito è la verità. Poiché tre sono quelli che rendono testimonianza: lo Spirito, l’acqua e il sangue, e i tre sono concordi.” L’altra lettura, al Vangelo, propone un passo ancora di Giovanni (cap.22 – vers.19-31): “…La sera di quello stesso giorno, il primo dopo il sabato, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, si fermò in mezzo a loro e disse: «Pace a voi!». Detto questo, mostrò loro le mani e il costato. E i discepoli gioirono al vedere il Signore. Gesù disse loro di nuovo: «Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi». Dopo aver detto questo, alitò su di loro e disse: «Ricevete lo Spirito Santo; a chi rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi». Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Dìdimo, non era con loro quando venne Gesù.Gli dissero allora gli altri discepoli: «Abbiamo visto il Signore!». Ma egli disse loro: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il dito nel posto dei chiodi e non metto la mia mano nel suo costato, non crederò». Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c’era con loro anche Tommaso. Venne Gesù, a porte chiuse, si fermò in mezzo a loro e disse: «Pace a voi!». Poi disse a Tommaso: «Metti qua il tuo dito e guarda le mie mani; stendi la tua mano, e mettila nel mio costato; e non essere più incredulo ma credente!». Rispose Tommaso: «Mio Signore e mio Dio!». Gesù gli disse: «Perché mi hai veduto, hai creduto: beati quelli che pur non avendo visto crederanno!». Molti altri segni fece Gesù in presenza dei suoi discepoli, ma non sono stati scritti in questo libro. Questi sono stati scritti, perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome.”
L’episodio narrato da Giovanni si verifica dunque 8 giorni dopo la resurrezione ed è pertanto conseguente che la liturgia lo collochi all’Ottava di Pasqua. Per questa domenica Bach ci ha lasciato solo 2 cantate. La prima in ordine di tempo è Halt im Gedächtnis Jesum Christ BWV 67 (Ricordati che Gesù Cristo, è risuscitato dai morti) eseguita la prima volta a Lipsia il 16 aprile 1724, a Lipsia. I testi di Nikolaus Herman (1480-1561), Jakob Ebert (1549-1615), Christian Weiss (1671-1737) e Solomo Franck (1659-1725) sono ispirati ai dubbi che pervadono gli apostoli dopo la resurrezione di Gesù. Nel coro iniziale spicca il tono solenne con il quale viene enunciata e ripetuta la parola “Halt”(Ricordati), mentre un melisma ascendente associato alla parola “Auferstanden” (Resuscitato). Il concetto della paura è ribadito anche nella successiva aria bipartita del tenore, con oboe obbligato: “Il mio Gesù è risorto, perché ho paura?”. Le frasi spezzate del canto e della parte strumentale, trasmetto questo senso di gioia ma anche di timore.
Seguono due recitativi “secchi” del contralto, inframezzati da un Corale sulla gioia della Pasqua. Fulcro della Cantata, e pagina di grande originalità, l’aria del basso con coro. Il tema è ancora quello del dubbio individuale e dell’esperienza comunitaria della Resurrezione. L’aria si apre con un motivo agitato di archi in tempo di 4/4 che sfumanon in un terzetto di flauti e due oboi d’amore, in una meldia quasi di danza in tempo di 3/4 che accompagna la voce del basso (Gesù) che canta le parole “Pace a voi”. Questi due caratteri radicalmente diversi si alternano durante tutto l’aria. Alla musica concitata si collegano gli interventi del Coro (i soprani, i contralti e i tenori) che implorano Gesù di aiutarli nella loro battaglia contro Satana. A poco a poco i due tipi di musica si insinuano l’uno nell’altro. Nell’ultimo segmento di tempo in 4/4 si sente Gesù “agitato” che canta la sua “Pace a voi” al di sopra del tumultuante coro. Un rasserenante Corale, chiude la Cantata. Un’ultima notazione della storia dell’nterpretazione bachiana: questa è stata la prima cantata bachiana ad avere un’incisione discografica nel 1931.
Nr. 1 – Coro
Ricordati che Gesù Cristo,
è risuscitato dai morti.
Nr.2 – Aria (Tenore)
Il mio Gesù è risorto,
di cosa ho ancora paura?
La mia fede riconosce la vittoria del Salvatore
ma il mio cuore percepisce ancora conflitti e
battaglie, appaia dunque la mia salvezza!
Nr.3 – Recitativo (Contralto)
Mio Gesù, tu che sei conosciuto come lo sterminio
della morte e la peste degli inferi: 2
ah, sono ancora assalito da paure e pericoli!
Tu stesso hai posto sulle nostre bocche
un canto di lode che noi abbiamo intonato:
Nr.4 – Corale
E’ apparso il giorno glorioso
di cui non si può mai gioire abbastanza:
Cristo, nostro Signore, oggi trionfa,
ha imprigionato tutti i suoi nemici.
Alleluia!
Nr.5 – Recitativo (Contralto)
Sembra ormai
che la schiera dei nemici,
che mi appare sempre più grande e spaventosa,
non mi lascerà in pace.
Ma visto che hai ottenuto per me la vittoria,
combatti ora al mio fianco, con il tuo bambino.
Si, si, già la fede ci fa percepire
che tu, Principe della Pace,
compirai in noi la tua Parola e la tua opera.
Nr.6 – Aria (Basso e Coro)
Basso:
La pace sia con voi!
Coro (Soprano, Contralto, Tenore)
Che gioia per noi! Gesù ci aiuta a combattere
e contenere la furia del nemico,
inferno, Satana, vade retro!
Basso
La pace sia con voi!
Coro
Gesù ci porta la pace
e a noi affaticati rinfranca
sia il corpo che l’anima.
Basso
La pace sia con voi!
Coro
O Signore, aiutaci e rendici capaci
di raggiungere attraverso la morte
il tuo Regno glorioso!
Basso
La pace sia con voi!
Nr.7 – Corale
Principe della Pace, Signore Gesù Cristo,
vero Dio e vero uomo,
tu sei un soccorritore potente
nella vita e nella morte:
perciò solo
nel tuo nome
possiamo invocare il nostro Padre.
Traduzione Emanuele Antonacci
Napoli, Teatro di San Carlo, Stagione d’opera e danza 2024/25
“LA FANCIULLA DEL WEST”
Opera in tre atti su libretto di Guelfo Civinini e Carlo Zangarini, dal dramma The Girl of the Golden West di David Belasco
Musica di Giacomo Puccini
Minnie ANNA PIROZZI
Jack Rance GABRIELE VIVIANI
Dick Johnson MARTIN MUEHLE
Nick ALBERTO ROBERT
Ashby MARIANO BUCCINO
Sonora LEON KIM
Sid LODOVICO FILIPPO RAVIZZA
Trin ANTONIO GARÉS
Bello CLEMENTE ANTONIO DALIOTTI
Harry GREGORY BONFATTI
Joe SUN TIANXUEFEI
Happy PIETRO DI BIANCO
Larkens LORENZO MAZZUCCHELLI
Billy Jackrabbit SEBASTIÀ SERRA
Wowkle ANTONIA SALZANO
Jack Wallace GABRIELE RIBIS
José Castro YUNHO KIM
Un postiglione MICHELE MADDALONI
Orchestra e Coro del Teatro di San Carlo
Direttore Jonathan Darlington
Maestro del Coro Fabrizio Cassi
Regia, Scene, Costumi Hugo De Ana
Regia ripresa da Paolo Vettori
Luci Vinicio Cheli riprese da Virginio Levrio
Projection Designer Sergio Metalli
Produzione del Teatro di San Carlo in coproduzione con ABAO Bilbao Opera
Napoli, 19 aprile 2025
Arriva, al San Carlo, La fanciulla del West. Il soggetto del dramma amoroso di Puccini è tratto da The Girl of the Golden West del drammaturgo statunitense David Belasco. L’allestimento scenico, disegnato dal regista Hugo De Ana, restituisce poeticamente l’ambientazione western, entro cui la storia d’amore tra Minnie e il bandito Johnson-Ramerrez è fatalmente innestata. Ciò accade attraverso una ricostruzione didascalica e caratteristica del «selvaggio west»: dall’elementarità della «Polka», il saloon dell’atto primo, alla stanzetta di Minnie dell’atto secondo: una poetica casupola in legno, contrassegnata visivamente ed esteticamente da un «descrittivismo» scenico dettagliato: tegami, bacili, pentole, lanterne e lampade a olio, bottiglie di bevande alcoliche, tovaglie a quadri: una scenografia western «pittoresca», anche caratterizzata da un enorme mulino a vento «americano» e da costumi ugualmente caratteristici, disegnati dal regista medesimo. Le strutture in legno, inoltre, sembrano emergere da fondali paesaggistici – progettati da Sergio Metalli – riproducenti, attraverso proiezioni di immagini «in movimento», le montagne della Sierra californiana; poetiche sono le gradazioni grigio-bluastre della bufera di neve e quelle rossastre del tramonto: un’atmosfera generale pressoché «favolistica», e determinata da luci calde e soffuse (di Vinicio Cheli, riprese da Virginio Levrio). Al regista, occorre riconoscere un’opportuna gestione e distribuzione sceniche delle masse corali, che – preparate da Fabrizio Cassi – concorrono alla creazione, soprattutto nell’atto primo, dell’atmosfera western, tra minatori e bevitori di whisky. De Ana – attraverso un disegno registico ripreso da Paolo Vettori – riesce a evidenziare i tormenti emotivi dei personaggi, costringendo sovente l’azione in spazi ristretti o su di un «piano scenico» secondario, come quello della casetta di Minnie. La regia, a volte, prevede una successione simultanea delle scene, ma, nonostante questo elemento vivacizzante, resta anche caratterizzata da un’artificiosità scenica – ravvisabile in gesti inevitabilmente retorici, come uno sfoderamento pressoché costante di fucili e rivoltelle. Alla testa dell’Orchestra del San Carlo, Jonathan Darlington. Convince l’attenzione che egli pone alla potenza «teatrale» della scrittura strumentale – dando risalto all’energica espressività del preludio, all’evocazione sonora estremamente suggestiva delle scene paesaggistiche e alla caratterizzazione «atmosferica» dei momenti cruciali dell’opera, soprattutto quelli dell’atto secondo: dal fervore del duetto amoroso della Fanciulla con Johnson-Ramerrez alla concitazione della partita a poker di Minnie con Jack Rance. L’essenziale materiale vocale viene frequentemente potenziato dalla variegata scrittura orchestrale, determinata anche da organici e frequenti «riferimenti al teatro wagneriano» (come ricordava, peraltro, Michele Girardi nel saggio Il Novecento secondo Puccini / La fanciulla del West, inserito nel programma di sala del teatro lirico napoletano). Nel ruolo della Fanciulla, Anna Pirozzi. Il soprano presta alla sua Minnie un comportamento vocale teatralmente «declamatorio»: la parola viene vivacizzata e, all’occorrenza, resa efficacemente nervosa nei momenti di «abbandono» sentimentale – come accade nell’atto secondo, nei «duetti» della giovane con l’amato Johnson, caratterizzati anche da «passaggi» emotivi drammaticamente efficaci: dalla tenerezza allo sdegno («Oh, se sapeste» / «Vieni fuori!…»). Ciò consente alla cantante-attrice di poter costruire un ritratto psicologico «complesso» e stupendamente umano della Fanciulla: «scherzosa» e «malinconica» (come da libretto), e che riesce a gestire emozioni contrastanti e momenti vocali estremi. Una profondità espressiva è, inoltre, ravvisabile anche nelle frasi sceniche «parlate» – come «Non farti sentire. È geloso, Jack Rance…», nell’atto secondo. Sì, Rance è geloso, e a interpretarlo è Gabriele Viviani. Il baritono è padrone di una voce corposa ed espressivamente declamante – come nell’atto primo, nel duetto con Minnie. Un fraseggio vigoroso, intriso di senso «teatrale», consente al cantante di dare risalto alla «crudeltà» dello sceriffo, paradigmatica di una personalità «scellerata»: la collera, che tormenta il personaggio per il sentimento amoroso non corrisposto, viene risolta sardonicamente (come accade nell’atto secondo, nel duetto con la Fanciulla: «Che c’è di nuovo, Jack? – Non sono Jack…» / «Una partita a poker! – Come l’ami!…»): un’ottima prova anche attoriale, dunque. Parimenti convincente Martin Muehle: egli garantisce al suo Dick Johnson un opportuno temperamento teatrale, che consente al tenore di poter metaforicamente impersonare la potenza redentrice dell’amore. Ciò è ravvisabile nell’aria dell’atto terzo «Ch’ella mi creda libero e lontano», affrontata con uno slancio lirico fortemente espressivo. «Fierezza», «alterigia», frequente esaltazione emotiva: le varie didascalie della partitura vengono drammaticamente restituite, e concorrono a dare risalto alla declamazione della voce, affrontata con appropriatezza stilistica. Volume vocale ragguardevole e brillantezza del colore timbrico consentono, dunque, una risoluzione scenica del ruolo davvero notevole. Convincono anche le prove vocali e interpretative degli attori-cantanti che, soprattutto nell’atto primo, riescono opportunamente a partecipare alla creazione dell’atmosfera western: Alberto Robert (Nick), Mariano Buccino (Ashby), Leon Kim (Sonora). Completano ottimamente il cast: Lodovico Filippo Ravizza (Sid), Antonio Garés (Trin), Clemente Antonio Daliotti (Bello), Gregory Bonfatti (Harry), Sun Tianxuefei (Joe), Pietro Di Bianco (Happy), Lorenzo Mazzucchelli (Larkens), Sebastià Serra (Billy Jackrabbit), Antonia Salzano (Wowkle), Gabriele Ribis (Jack Wallace), Yunho Kim (José Castro), Michele Maddaloni (Un postiglione). In definitiva, questa Fanciulla è stata accolta con vivo entusiasmo da un pubblico estremamente eterogeneo, composto anche da turisti. Foto Luciano Romano
Deutsche Oper Berlin, season 2024/2025
“LOHENGRIN”
Romantic opera in three acts
Libretto and music by Richard Wagner
Lohengrin ATTILIO GLASER
Elsa von Brabant FLURINA STUCKI
Friedrich von Telramund MARTIN GANTNER
Ortrud, his wife MIINA LIISA VÄRELÄ
Heinrich der Vogler BYUNG GIL KIM
King’s Herald DEAN MURPHY
Four Noblemen of Brabant PATRICK COOK, ÁLVARO ZAMBRANO,
GEON KIM, STEPHEN MARSH
Four Pages NATALIE BUCK, ANDREA SCHWARZBACH,
KRISTINA GRIEP, MAHTAB KESHAVARZ
Chor & Orchester der Deutschen Oper Berlin
Conductor Constantin Trinks
Chorus master Jeremy Bines
Director Kasper Holten
Stage, costumes Steffen Aarfing
Light Jesper Kongshaug
Berlin, 20th April 2025
Kasper Holten’s production of Richard Wagner’s Lohengrin is back at Deutsche Oper Berlin for another revival. When I saw it more than 10 years ago shortly after the premiere, I wasn’t able to make head or tail of it. This has hardly changed even though it seems worryingly forward-looking in view of the current events in Europe or the Middle East. Preludes to Wagner operas are musical quintessences that can stand very well on their own and do not need to be directed. The following opera is scenically long enough for this. It is also unwise to tell a plot from behind when everyone is already dead, so that the crew trudge through asphalt-grey underworlds with gunshot wounds to the heart and gauze bandages around their skulls. It is even worse when the prelude is garnished with a meanwhile reduced veristic scream from a female chorus member. War is, of course, a subject that needs to be told with more plausible ideas and more psychology, and less standing around and silent gestures such as pats on the back, nods or shakes of the head, consistently and not in passing. The director has as good as shot his powder with the prelude. If you add Steffen Aarfing’s dark stage and grey costumes and subtract Holten’s almost absent direction of the characters, you will get a gloomy evening of opera that casts Lohengrin in an even brighter light. The hero is extremely well lit by Jesper Kongshaug, often surrounded by an aura of light. This makes him stand out even better in contrast to the poor lighting of the others. Did the manipulator Lohengrin stage the unfavourable light for the others? Conceivable. That would be kind of ingenious, but it would be a bit of a stretch. The audience may very easily fall for Lohengrin’s pretence instead. It is only at the very end or afterwards that you really realise what game the politician and man of power Lohengrin is playing here. Holten wants to show the seductiveness of man in a highly impressive and lasting way to wonder if the Swan Knight is playing a false game but he gets stuck with the idea. In the world Lohengrin ends up in, everything is too late anyway. Little Gottfried, whose disappearance sets the whole plot in motion, eventually returns to Brabant as a child’s corpse. War is war and heroes are of little help. Is the self-staged hero himself to blame for the carnage? A question that ultimately remains unanswered. Unfortunately, Holten’s production boils down to symbols and mere ideas. The musical side, however, is outstanding on the last evening of the three revivals. The Orchester der Deutschen Oper Berlin once again proves itself to be a competent custodian of Wagner’s music, which conductor Constantin Trinks develops slowly and even expands with ethereal flair, giving space to the big moments as well as the subtle little ones, entirely in the spirit of the master, whose handwritten words the great Berlin Wagner heroine Frida Leider still found at her debut in Bayreuth in 1928: ‘The big notes come by themselves; the small notes and their text are the main thing’. Trinks is a conductor of the old school in the best sense of the word, not letting the singers drown in the floods of sound, so that they are always audible and extremely clear. The Chor der Deutschen Oper Berlin, rehearsed by chorus master Jeremy Bines, does its level best performing the many tuttis with conviction and impressive power and allowing pianissimo passages such as Wie fasst uns selig süsses Grauen! after Lohengrin’s arrival to float in unearthly tenderness and beauty. I admit that I wanted to see the performance not only to experience the opera on stage again, but also to hear the up-and-coming Attilio Glaser from the ensemble in the title role. Although announced as indisposed, he surprises all along the line with an impeccable legato, an easy vocal emission and a clarity of text that is rarely found nowadays and I have to admit that his timbre reminds me a little of Fritz Wunderlich’s. Flurina Stucki is also part of the ensemble and sings a somewhat mature Elsa with great text comprehension as well, and with a reliably clear, if not always flattering tone. Miina Liisa Värelä has stood in at very short notice for Nina Stemme as Ortrud. She makes the stage shake with her brilliant, highly dramatic soprano and leaves no doubt as to who is pulling the mysterious strings. Martin Gantner sings Telramund convincingly with his bright-voiced character baritone. Byung Gil Kim as King Heinrich der Vogler captivates with the marvellous tones of his sonorous bass and is able to master the sometimes high tessitura very well. Dean Murphy sings the King’s Herald with a fresh baritone. All in all, a Lohengrin of musical delight, a highlight at Easter! Photo Bettina Stöβ
Roma, Sala Umberto
PREMIATA PASTICCERIA BELLAVISTA
una commedia di Vincenzo Salemme
compagnia Nest e Diana or.is
con Francesco Di Leva, Adriano Pantaleo, Giuseppe Gaudino
e con Stefano Miglio, Viviana Cangiano, Federica Carruba Toscano, Dolores Gianoli, Alessandra Mantice
scene Luigi Ferrigno
costumi Chiara Aversano
disegno luci Paco Summonte
sound designer Italo Buonsenso
coreografie Chiara Alborino
regia di Giuseppe Miale Di Mauro
Roma, 23 aprile 2025
C’è un momento, in Premiata Pasticceria Bellavista, messo in scena dalla Compagnia Nest con la regia di Giuseppe Miale Di Mauro, in cui la risata non ha più il suono pieno della spensieratezza, ma quello più ambiguo del grottesco. Si ride, sì, ma con la gola serrata, come se quel riso – e la sua ovazione istintiva – dovessero coprire un’improvvisa vertigine. È in quell’istante, rapido e fragile, che il teatro cessa di essere solo ripetizione e si fa azione critica: ed è lì che l’opera di Salemme, scritta negli anni ’90, si sottrae all’usura del tempo e rivendica, sorprendentemente, un’urgenza nuova. Ma giungervi non è un passaggio né immediato né del tutto limpido. La regia di Giuseppe Miale Di Mauro, infatti, pare affidarsi con eccessiva disinvoltura a una regola dell’accumulo, quasi temesse che il vuoto – quello fertile, quello necessario al respiro tragico – possa compromettere la ricezione. Così ogni gesto è un sottolineare, ogni movimento cerca la battuta, ogni linea del corpo vuole l’effetto. Ne risulta una comicità esibita, talora insistita, che finisce col distrarre piuttosto che suggerire. Una comicità, potremmo dire, accomodante e non inquieta, che teme la pausa e si rifugia nel ritmo più che nella tensione. Vi è, in questo meccanismo, una certa arrendevolezza – direi quasi una complicità – verso quella forma di intrattenimento che del teatro conserva l’involucro, ma ne tradisce la sostanza. La battuta arriva puntuale, ma è spesso priva di sottotesto; il ritmo è serrato, ma raramente scava. Ne consegue un registro che, a tratti, sfiora il varietà televisivo, laddove la scena dovrebbe invece restare luogo di scontro, di ferita, di esposizione dell’umano. Eppure – ed è qui la contraddizione, o forse il merito sottile – proprio in questa tensione fra leggerezza e gravità, fra riso e amarezza, tutto si salva. La drammaturgia di Salemme, con la sua architettura farsesca che si apre in fondo a uno spazio tragico, riesce comunque ad affiorare e pulsa sotto la superficie, come una corrente carsica, testimoniando una verità che resiste ai trucchi del mestiere. Determinante, in questo equilibrio precario, è l’apporto degli attori. Sono loro – con mestiere solido, misura sicura, istinto calibrato – a ricucire le fratture, a tenere insieme i piani che rischierebbero altrimenti di scollarsi. Il loro lavoro, lontano dall’istrionismo e dalla compiacenza, restituisce ai personaggi una dignità malinconica, una vita vissuta, un respiro. Ed è grazie a loro che lo spettacolo finisce col funzionare: non come meccanismo perfetto, ma come organismo vivo, imperfetto e dunque umano. Adriano Pantaleo lavora su una misura interna, fatta di esitazioni e ritardi, restituendo una presenza che rifugge l’affermazione. Viviana Cangiano spinge sul corpo e sulla parola, con energia densa che rischia il manierismo ma non vi cede. Pantaleo torna con una magnetica essenzialità: ogni frase incide, ogni silenzio è un risarcimento poetico. Francesco Di Leva sceglie un comico trattenuto, preciso, che osserva senza evadere. Giuseppe Gaudino, Stefano Miglio, Federica Carruba Toscano, Dolores Gianoli, Alessandra Mantice compongono una galleria di personaggi secondari, ma mai secondari nella costruzione del mondo scenico: tutti portano un dettaglio, un’incrinatura, un eccesso che contribuisce al tono generale dello spettacolo. Le luci di Paco Summonte non cercano effetti, ma atmosfere. Una luce diffusa accompagna le scene, salvo poi stringersi su momenti più lirici o ambigui. I costumi di Chiara Aversano evitano la citazione e lavorano su una riconoscibilità che tende all’archetipo. Il disegno sonoro di Italo Buonsenso si inserisce con efficacia, creando un controcanto ironico o sospeso. Il momento coreografico – il balletto su I Pagliacci di Capossela, firmato da Chiara Alborino – è l’unico istante davvero straniante, in cui la messa in scena si concede una digressione poetica che rompe la linearità del racconto. L’operazione, complessivamente, è chiara: non si vuole riscrivere Salemme, ma rileggerlo. Togliere polvere al testo, metterlo in ascolto con il presente. In questo, la Compagnia Nest conferma la propria capacità di mediazione tra cultura popolare e rigore teatrale. Si ride, ma in fondo alla risata resta il sospetto di non essere del tutto innocenti. Il pubblico, numeroso e partecipe, ha risposto con entusiasmo. Applausi convinti, ma non rituali. Forse perché ha sentito che sotto la glassa del comico si muoveva qualcosa di meno rassicurante. Qualcosa che riguarda tutti: l’istinto di chiudere gli occhi per non vedere ciò che ci disturba. Ma la scena, si sa, è lo spazio dove tutto – anche ciò che preferiremmo ignorare – si mostra. E in quella pasticceria dove si mescolano zucchero e rancore, amore e convenienza, non resta che constatare: la dolcezza è una copertura. Il sapore vero, spesso, è quello che resta in bocca quando la torta è finita. Photocredit Carmine Luino