Milano, Teatro alla Scala, Stagione d’Opera e Balletto 2024/25
“EVGENIJ ONEGIN”
Dramma lirico in tre atti e sette quadri su Libretto di Pëtr Il’ic Cajkovskij e Konstantin Shilowski, tratto dal poema di Aleksandr Sergeevič Puškin
Musica di Pëtr Il’ič Čajkovskij
Larina ALISA KOLOSOVA
Tat’jana AIDA GARIFULLINA
Olga ELMINA HASAN
Filipp’evna JULIA GERTSEVA
Evgenij Onegin ALEXEY MARKOV
Lenskij DMITRY KORCHAK
Gremin DMITRY ULYANOV
Capitano HUANHONG LI
Zareckij OLEG BUDARATSKIY
Triquet YAROSLAV ABAIMOV
Orchestra e Coro del Teatro alla Scala
Direttore Timur Zangiev
Maestro del Coro Alberto Malazzi
Regia Mario Martone
Scene Margherita Palli
Costumi Ursula Patzak
Luci Pasquale Mari
Coreografia Daniela Schiavone
Video Alessandro Papa
Nuova produzione del Teatro alla Scala
Milano, 05 marzo 2025
La nuova produzione dell’“Evgenij Onegin” scaligero può ben fregiarsi di un cast di livello altissimo, accuratamente selezionato tra i migliori interpreti di lingua russa in circolazione. Alexey Markov è un Onegin dalla vocalità sontuosa, forse solo un po’ povero di fraseggio nei primi atti, ma che nel terzo sfodera slanci appassionati e un’intensa recitazione; gli fa da contraltare il Lenskij di Dmitry Korchak, voce forse un po’ “leggera” per il ruolo, ma superbo fraseggiatore, ricco di accenti patetici e dalla dizione singolarmente limpida (la sua aria del secondo atto è magistrale, e il teatro non può esimersi dal riconoscerlo con generosissimi applausi, che invece non riserva alla maggior parte della recita); conclude il terzetto di eccellenza maschile Dmitry Ulyanov, Gremin di ragguardevole dolcezza, così distante dallo stereotipo tutto polmoni che abbiamo dei bassi russi: la sua romanza è un altro momento apprezzatissimo dal pubblico. Accanto a loro quattro ottime interpreti incarnano le donne della famiglia Larin: Alisa Kolosova è una convincente Larina, matronale e ingenua al punto giusto, la voce tonda, piacevolmente scura, si fa riconoscere; la Tat’jana di Aida Garifullina è semplicemente un angelo, di bellezza e grazia rare, sul piano vocale sfoggia colori bellissimi e la pienezza di armonici ma che non compensano del tutto la mancanza di un reale corpo vocale per questo ruolo e arriva al duetto finale dell’opera con un certo senso di affanno, pur mantenendo perfettamente il focus sul personaggio; che dire di Elmina Hasan, la recente scoperta di Operalia, bella voce contraltile profonda e suadente come sembra che solo oltre la Volga possano nascere? Nel ruolo di Olga è bellissima e altera, e certamente l’interprete azera sarà una delle superstar di un molto prossimo domani; infine, dolcissima njanja Filipp’evna è Julia Gertseva, solido mezzosoprano in grado di cesellare con attenzione la sua parte, mantenendosi su una linea di canto sapientemente omogenea. Tutti ben a fuoco anche i ruoli di lato, tra cui spicca naturalmente Yaroslav Abaimov nel ruolo del poeta francese Triquet, contraddistinto da una voce tenorile di grazia dai morbidi accenti giustamente manierati (visto il personaggio). Anche il direttore Timur Zangiev, sorprendentemente giovane, ci regala una concertazione di grande coesione, tutta al servizio della scena e del canto, ma capace di ritagliarsi momenti di significativo nitore, come l’ouverture o la celebre polonaise dell’atto terzo. Gli unici dubbi che abbiamo sull’effettiva riuscita di questo “Onegin” riguardano l’apparato creativo; in questa produzione, infatti, assistiamo a un singolare paradosso, ossia quello di una regia (a cura Mario Martone) molto ben riuscita nella costruzione delle dinamiche tra personaggi e nella gestione del coro, ma decisamente opinabile circa la messa in scena, che trasferisce la vicenda in una generica contemporaneità, cui evidentemente manca bellezza, un minimo di allure, per lasciare invece spazio a roghi di libri, case che crollano, costumi da provincia degradata – a parte per il breve terzo atto, dove però l’opulenza che dovrebbe contraddistinguere casa Gremin si riduce a qualche abito da sera e due o tre sofà Luigi XV. Inoltre il voler ricreare unicamente la camera di Tat’jana in mezzo alla natura, ottiene un poco gradevole “effetto gabbiotto” nel cuore, peraltro, di una campagna raffazzonata e sbrigativa, con il cielo solo sulla parete di fondo e le quinte nere a vista (per dire solo di un elemento che ci è parso stonato). Dispiace per Margherita Palli e Ursula Patzak, brave artiste che ci hanno abituati a ben altre grandiose messe in scena; in compenso le luci di Pasquale Mari ci sono sembrate davvero azzeccate, con il culmine al terzo atto, quando la festa di casa Gremin viene proiettata su un sipario di tulle rosso, ottenendo un effetto stranito e sovrapposto che ci ha ricordato l’apertura di “Mulholland Drive” di Lynch. Un plauso anche alle coreografie di Daniela Schiavone, semplici ma di grande impatto, capace di dare comunque un tocco di folklore in questa regia così occidentalizzante. Come già detto, non sappiamo se per la resa scenica o per altre ragioni, il numerosissimo pubblico in sala è stato gelido e il teatro è stato semivuoto già alla chiamata degli applausi individuali: un penoso spettacolo, questo sì, a fronte di un’opera che già di per sé avrebbe meritato lunghi tributi, e un cast certamente meritevole di un atteggiamento più educato da parte del pubblico. Foto Brescia & Amisano
Verona, Teatro Ristori, Baroque Festival
LE PASSIONI UMANE
LE ALTRE QUATTRO STAGIONI
Coreografia Michele Merola ed Enrico Morelli
Musica Antonio Vivaldi ricomposta da Max Richter
Musica eseguita dal vivo da I Virtuosi Italiani
Luci Gessica Germini
Costumi Nuvia Valestri
Interpreti danzatori della MM Contemporary Dance Company: Filippo Begnozzi, Lorenzo Fiorito, Mario Genovese, Matilde Gherardi, Aurora Lattanzi, Federico Musumeci, Giorgia Raffetto, Alice Ruspaggiari, Giuseppe Villarosa
Prima nazionale
VIVALDI UMANE PASSIONI 2.0
Coreografia Michele Merola
Musica Antonio Vivaldi
Musica eseguita dal vivo da I Virtuosi Italiani
Luci Gessica Germini
Costumi Carlotta Montanari
Maestro ripetitore Enrico Morelli
Interpreti danzatori della MM Contemporary Dance Company: Lorenzo Fiorito, Mario Genovese, Matilde Gherardi, Fabiana Lonardo, Alice Ruspaggiari, Nicola Stasi, Giuseppe Villarosa
Verona, 6 marzo 2025
“Le quattro stagioni” è il titolo con cui sono noti i primi quattro concerti solistici per violino dell’opera “Il cimento dell’armonia e dell’invenzione” di Antonio Vivaldi, tuttavia per la coreografia “Le altre quattro stagioni” si è fatto affidamento alla moderna variazione operata dal compositore Max Richter, già premiato con 3 Grammy Award per musiche da film. Nove danzatori della MM Contemporary Dance Company, vestiti di bianco in una scena scura ondeggiano morbidi su archeggi leggeri. Movimenti sinuosi sopra i violini dell’orchestra dal vivo riescono ad emozionare il pubblico vigile e attento, desideroso di cogliere il significato di sì tanta bellezza. Il ciclo dalla primavera all’inverno è un rituale ancestrale che per molti popoli coincide con il rinnovarsi dell’anno. Un ciclo che una volta chiuso ricomincia rigenerandosi in una nuova primavera, e questo ci conforta, ci dà forza e fiducia in un nuovo ciclo di cui siamo punto di partenza e punto di ritorno. Qui scaturiscono le passioni umane, dove il movimento incontra il suono e lo fa proprio con eleganza e stile. I coreografi Michele Merola ed Enrico Morelli hanno voluto rigenerare nuove danze dalla musica barocca di Vivaldi: nuove analogie e simmetrie. “Le altre quattro stagioni”, in prima nazionale, offre al pubblico un’esperienza totalizzante, ricca di sfumature e toni: un ciclo della vita ricco di riflessioni misurate e di allusioni. Invece in “Vivaldi umane passioni 2.0” Merola esprimere, con la danza, le gioie e i tormenti dell’essere. Per il coreografo si tratta di arrivare al senso della vita, che inizia nel trovare ispirazione dai quadri di Marc Chagall, quando l’intento è “staccarsi da terra e fluttuare nello spazio”. Merola visualizza l’ intimo coinvolgimento della sua danza con la stessa passione e lo stesso furore dettati dalle note di Vivaldi. Si tratta di un dialogo tra musica e danza, un equilibrato connubio ricco e complesso. Stavolta sette ballerini con abiti colorati su scena dai colori cangianti riproducono un inno solenne alla vita grazie alle variazioni sonore eseguite sempre dal vivo da “I virtuosi italiani”. I danzatori per questa seconda coreografia danzano più all’unisono formando composizioni slanciate di corpi su passi di danza in sincro come sembianze di un umano gioire e soffrire, come la vita sa offrire. In questa serata la MM Contemporary Dance Company di Michele Merola ha saputo testimoniare la sua importanza come centro di produzione di eventi e spettacoli e come promotrice di rassegne e workshop con l’obiettivo di favorire scambi e alleanze fra artisti italiani e internazionali, come portavoce della cultura contemporanea. Photocredit Riccardo Panozzo
La Cantata nuziale “Der Herr denket an uns” BWV196 ha una datazione incerta. Si ritiene che si tratti di un’opera giovanile, per le sue somiglianze formali con altre cantate bachiane del primo decennio del XVIII secolo. Infatti, non ci sono recitativi solistici e il compositore utilizza un’introduzione orchestrale tematicamente legata al secondo movimento corale. Anche l’occasione per cui fu scritta è incerta, ma potrebbe essere il matrimonio del 1708 di Johann Lorenz Stauber e Regina Wedemann, zia della moglie di Bach, Maria Barbara. Stauber era anche l’ecclesiastico luterano che aveva celebrato il matrimonio di Bach e Maria Barbara l’anno precedente. Pertanto, la cantata la si colloca al periodo trascorso da Bach a Mulhausen (1707-1708). L’opera, di dimensioni e portata modeste si basa su un testo tratto dal Salmo 115 (vers.12-15) è divisa in cinque movimenti e presenta un’atmosfera generalmente intrisa di una gioia pacata con una scrittura strumentale e vocale non complessa. Apre la Cantata una Sinfonia (nr.1) dal ritmo moderato, il cui tema principale è gioioso. Il Coro che segue (Nr.2) inizia con le parole del titolo, “Der Herr denket an uns” (Il Signore si ricorda di noi), cantate in mezzo a un’allegra attività contrappuntistica. Il terzo movimento è un’aria di soprano 8NR.3) relativamente malinconica emana una disinvolta sicurezza nel suo ritmo musicale. Il successivo duetto per tenore e basso (Nr.4) è più vivace e presenta un’accattivante scrittura contrappuntistica nella sezione centrale. Il Coro conclusivo (Nr.5)come nel precedente è ricco di contrappunti. Il testo, “Ihr seid die Gesegneten des Herrn…” (Voi siate i benedetti dal Signore), è brillantemente utilizzato da Bach che cattura l’essenza delle parole con un senso gioioso che sembra esplodere di fervore religioso. La doppia fuga sulla parola Amen si chiude però in “piano” con tinte delicate che si addicevano al giovane Bach che si propone, sobrio e discreto.
Nr.1 – Sinfonia
Nr.2 – Coro
Il Signore si ricorda di noi e ci benedice.
Benedice la casa d’Israele, benedice la casa di Aronne.
Nr.3 – Aria (Soprano)
Egli benedice coloro che temono il Signore,
Tutti, i piccoli e i grandi.
Nr.4 – Aria-Duetto (Tenore, Basso)
Vi benedica il Signore sempre più
Voi e i vostri figli.
Nr.5 – Coro
Voi siate i benedetti dal Signore,
che ha fatto Cielo e terra. Amen.
Traduzione Alberto Lazzari
Saronno (VA), Teatro “Giuditta Pasta”: “Anna Karenina” il 13 marzo 2025
Come raccontare a teatro una delle storie più belle del mondo?Innanzitutto con un cast di livello che parte da una delle migliori attrici italiane, Galatea Ranzi, per il ruolo di Anna, ma anche da un insieme di interpreti di altrettanto spessore. Insieme col drammaturgo Gianni Garrera si è deciso di non nascondere l’origine letteraria del testo, ma anzi di valorizzarla. Al di là dei dialoghi, le parti più strettamente narrative e i pensieri dei personaggi saranno detti dagli stessi attori che interpretano i ruoli, seguendo la lezione del Ronconi del “pasticciaccio” e configurando degli “a parte” tipici del linguaggio teatrale.
A queste tecniche puramente teatrali ho aggiunto un montaggio veloce, cinematografico, composto di molte brevi scene e contrassegnato dalla grammatica visivo-musicale, di Marta Crisolini Malatesta, Gigi Saccomandi e Ran Bagno. Le coreografie sono di Alessandra Panzavolta. Come nel romanzo tutto inizia e termina con un treno, emblema del testo di Tolstoj. Naturalmente sta a noi l’arduo compito di tradurre in immagini, suoni, parole uno dei libri che più spesso si trova sul comodino di ognuno di noi.
Per Info e Biglietti: qui
Roma, Teatro Brancaccio
I TRE MOSCHETTIERI: OPERA POP
con Vittorio Matteucci, Giò di Tonno, Graziano Galatone
e con:
Sea John – D’Artagnan
Leonardo Di Minno – Rochefort
Cristian Mini – Richelieu
Camilla Rinaldi – Milady
Beatrice Blaskovic – Costanza
Roberto Rossetti – Dumas
Gabriele Beddoni – Planchet
Performers: i ragazzi della Peparini Academy Special Class
coreografie Veronica Peparini e Andreas Muller
testi Alessandro Di Zio
musiche Giò Di Tonno
orchestrazioni Giancarlo Di Maria
produzione STEFANO FRANCIONI PRODUZIONI E TEATRO STABILE D’ABRUZZO
organizzazione VENTIDIECI
Direzione artistica e regia Giuliano Peparini
Roma, 07 marzo 2025
Se c’è una cosa che il teatro musicale ci ha insegnato è che trasformare un classico letterario in un’opera pop non è mai un’impresa semplice. C’è chi ci riesce con un’intuizione geniale, chi con una partitura capace di restituire il peso drammatico della narrazione e chi, invece, si affida alla magniloquenza visiva per colmare le lacune strutturali. I Tre Moschettieri – Opera Pop, produzione di Stefano Francioni e del Teatro Stabile d’Abruzzo, si colloca in questo solco con un’estetica imponente, una regia spettacolare e una partitura che, pur volenterosa, procede a strappi, senza mai decollare del tutto. L’idea di Giuliano Peparini di far partire la vicenda da una fabbrica di scatoloni, dove il ritrovamento di un libro innesca la magia della narrazione, ha il sapore del déjà vu: un espediente narrativo che strizza l’occhio al teatro metatestuale, ma che nella pratica si traduce in un preambolo didascalico che spezza l’ingresso nell’azione. Roberto Rossetti nei panni di Dumas è carismatico e si fa garante della narrazione, ma la sua funzione rimane accessoria, un collante che risolve più che arricchire. Dal punto di vista musicale, Giò Di Tonno si cimenta in un’operazione ambiziosa, con una scrittura che tenta la fusione tra musical popolare e partitura sinfonico-drammatica, senza tuttavia raggiungere una sintesi convincente. Le orchestrazioni si affidano a progressioni armoniche consolidate e a un uso reiterato di climax sonori che, invece di intensificare la tensione, finiscono per appiattirla. L’assenza di numeri realmente memorabili è il vero tallone d’Achille della partitura: i brani funzionano come raccordi tra le scene, ma non emergono con quella forza tematica che avrebbe reso lo spettacolo un’opera compiuta. I tre protagonisti, pur sostenuti da un’ottima presenza scenica, non trovano nella scrittura musicale una reale caratterizzazione individuale: Di Tonno, Matteucci e Galatone giocano sul carisma vocale e sul mestiere, ma la musica non conferisce loro una tridimensionalità emotiva. L’apparato scenografico è di grande effetto, con un uso esteso di proiezioni e strutture mobili che suggeriscono una Parigi evocata più che ricostruita. Peparini, come sempre, padroneggia il linguaggio del grande affresco teatrale, ma l’alternanza di chiaroscuri e bui scenici, anziché sottolineare il dramma, talvolta ne smorza il ritmo. Il corpo di ballo, diretto da Veronica Peparini e Andreas Müller, si conferma elemento portante dello spettacolo, fungendo da contrappunto dinamico alla narrazione. La coreografia, per quanto tecnicamente ineccepibile, si inserisce nella narrazione con una funzione più illustrativa che drammaturgica. Dal punto di vista interpretativo, Sea John si distingue per una presenza scenica incisiva e un’ottima gestione della prossemica teatrale. Il suo D’Artagnan è impulsivo, energico, ma avrebbe beneficiato di una scrittura musicale più incisiva. La sua linea di canto è pulita, con un uso equilibrato del registro medio-alto, ma l’assenza di un vero e proprio “theme song” per il protagonista lascia la sua caratterizzazione in sospeso. Beatrice Blaskovic offre una Costanza di grande eleganza, con una vocalità morbida e una tenuta scenica di classe, mentre Camilla Rinaldi riesce a dare a Milady una sfumatura interessante tra crudeltà e sensualità. La sua interpretazione è ricca di dettagli espressivi, con un controllo della dinamica vocale che si fa notare nei momenti più lirici. Cristian Mini tratteggia un Richelieu essenziale, senza concessioni a eccessi caricaturali, con un’intonazione precisa e una recitazione misurata. Leonardo Di Minno, nei panni di Rochefort, è un antagonista pungente e ben calibrato, con un fraseggio scattante e un uso efficace della dizione teatrale. Gabriele Beddoni si distingue per la poliedricità: la sua capacità di passare da un ruolo all’altro con naturalezza e il suo controllo fisico impeccabile ne fanno un elemento prezioso della compagnia. Luca Callà, nel ruolo di Luigi XIII, utilizza con intelligenza la gestualità scenica, offrendo un’interpretazione che, pur senza battute di rilievo, comunica l’ambiguità del personaggio con estrema precisione. Nel complesso, I Tre Moschettieri – Opera Pop è uno spettacolo che affascina per la potenza visiva e per la solidità del cast, ma che manca dell’elemento imprescindibile di ogni grande musical: una scrittura musicale che dia identità ai personaggi e ne scandisca l’evoluzione. Il lavoro di Peparini è efficace nella resa spettacolare, ma il rischio è quello di restare prigionieri di un’estetica che sovrasta il racconto, invece di sostenerlo. Un’operazione ambiziosa, che merita di essere vista, ma che avrebbe beneficiato di una maggiore coesione tra linguaggio scenico e musicale. E dopotutto, quando i moschettieri incrociano le spade, il pubblico non può che esultare – anche se qualche nota si perde lungo la strada.
Roma, Teatro Vascello
EDIPO RE
di Sofocle
traduzione Fabrizio Sinisi
adattamento e regia Andrea De Rosa
con (in o.a.) Francesca Cutolo, Francesca Della Monica, Marco Foschi, Roberto Latini, Frédérique Loliée, Fabio Pasquini
scene Daniele Spanò
luci Pasquale Mari
suono G.U.P. Alcaro
costumi Graziella Pepe
assistenti alla regia Paolo Costantini, Andrea Lucchetta
costumi realizzati presso il Laboratorio di Sartoria Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa
produzione TPE – Teatro Piemonte Europa, Teatro di Napoli – Teatro Nazionale, LAC Lugano Arte e Cultura, Teatro Nazionale di Genova, Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale
Roma, 06 marzo 2025
“Sventurato, non chiamarmi da parte: io non sono tuo figlio, ma figlio del fato.” Sofocle
Da questa citazione prende avvio il percorso interpretativo di Andrea De Rosa, il quale penetra nelle pieghe dell’Edipo Re con un approccio che, pur rispettando il canone sofocleo, ne amplifica le tensioni esistenziali e le implicazioni universali. Rappresentata al Teatro Vascello di Roma, la messinscena del regista configura un rito scenico che esalta la dialettica fra luce e oscurità, fra l’indagine razionale e la vertigine dell’inconoscibile. L’impianto visivo, curato da Daniele Spanò, è simbolicamente pregnante: un’architettura di riflessi e trasparenze, costruita per suggerire un labirinto concettuale e spirituale. Le luci di Pasquale Mari, lungi dall’essere mero complemento estetico, assolvono il compito drammaturgico di scandire l’alternanza fra svelamento e occultamento. Esse non si limitano a illuminare la scena, ma tracciano percorsi simbolici, rendendo il palco un microcosmo in cui l’incontro tra umano e divino si manifesta in tutta la sua dolorosa complessità. Al centro di questo dispositivo teatrale, Marco Foschi dà vita a un Edipo segnato da un’inquietudine profonda, figlio del dubbio e della disperazione. La sua interpretazione si configura come un meticoloso scavo psicologico, attraverso cui emerge il conflitto irrisolvibile fra l’esigenza di conoscere e il terrore di scoprire la verità. Frédérique Loliée, nel ruolo di Giocasta, si muove con raffinata ambivalenza: il suo personaggio incarna la fragilità dell’essere umano di fronte all’ineluttabile, pur mantenendo un’aria di dignità regale. Roberto Latini nel ruolo di Tiresia, rappresenta il medium attraverso cui il sacro si fa parola: il suo tono oracolare, il suo incedere ieratico sottolineano la presenza del divino come forza oscura e inaccessibile. Il Coro, interpretato da Francesca Cutolo e Francesca Della Monica, funge da voce collettiva, riflettendo il dramma individuale di Edipo sulla comunità tebana. La loro vocalità, sospesa tra il lirico e il tragico, diviene il tessuto connettivo che salda il singolo al destino universale. L’adattamento di Fabrizio Sinisi si distingue per la finezza linguistica e l’acume con cui restituisce le tensioni originarie del testo. Ogni battuta sembra frutto di una scelta consapevole e rigorosa, un’operazione che mira a far emergere il nodo centrale della tragedia: il rapporto conflittuale tra razionalità e inconoscibile. L’operazione drammaturgica non è mai pedissequa, ma vive di una rinnovata sensibilità che attualizza senza tradire. Le suggestioni sonore di G.U.P. Alcaro compongono un paesaggio acustico che non si limita a sottolineare le azioni, ma le amplifica emotivamente. I suoni sordi e vibranti si amalgamano alle voci, creando un’atmosfera sospesa che accresce la tensione drammatica. I costumi di Graziella Pepe raccontano la caduta e il disfacimento di un ordine simbolico: le stoffe, inizialmente pregiate, si trasformano progressivamente, lasciando trasparire una realtà che si sfalda sotto il peso della verità. L’Edipo Re di Andrea De Rosa non è soltanto una rilettura fedele del capolavoro sofocleo, ma un’opera che interroga il nostro rapporto con la verità e con l’identità. In questo contesto, la tragedia non si limita a rappresentare l’ineluttabilità del fato, ma diviene uno specchio in cui riflettere le angosce contemporanee. De Rosa, attraverso una regia sapiente e una cura maniacale dei dettagli, riesce a trasformare il testo classico in un’esperienza profondamente perturbante, capace di scuotere il pubblico e di suscitare interrogativi che vanno ben oltre il palcoscenico. Lo spettacolo, nella sua apparente semplicità, rivela una struttura compositiva complessa, in cui ogni elemento – attoriale, visivo, sonoro – contribuisce a costruire un linguaggio teatrale che si nutre di stratificazioni simboliche e rimandi culturali. È un teatro che non cerca la facile emozione, ma ambisce a una riflessione di ampio respiro, spingendo gli spettatori a confrontarsi con i limiti del conoscere e con la vertigine dell’essere. In definitiva, questa versione dell’Edipo Re si presenta come un laboratorio di pensiero e di sensazioni, un luogo in cui il sacro e il profano, la storia e il mito, l’antico e il contemporaneo trovano un equilibrio raro e prezioso. Il risultato è un’esperienza teatrale che non si esaurisce nella visione, ma continua a lavorare dentro di noi, come un enigma che non smette mai di interrogare la nostra coscienza. Photocredit Andrea Macchia
Napoli, Teatro Bellini
EXTRA MOENIA
uno spettacolo di Emma Dante
con Verdy Antsiou, Roberto Burgio, Italia Carroccio, Adriano Di Carlo, Angelica Di Pace, Silvia Giuffrè, Gabriele Greco, Francesca Laviosa, David Leone, Giuseppe Marino, Giuditta Perriera, Ivano Picciallo, Leonarda Saffi, Daniele Savarino
luci Luigi Biondi
assistente ai movimenti Davide Celona
assistente di produzione Daniela Gusmano
coordinamento dei servizi tecnici Giuseppe Baiamonte
capo reparto fonica Giuseppe Alterno
elettricista Marco Santoro
macchinista Giuseppe Macaluso
sarta Mariella Gerbino
amministratore di compagnia Andrea Sofia
produzione Teatro Biondo Palermo
in coproduzione con Atto Unico – Carnezzeria
in collaborazione con Sud Costa Occidentale
coordinamento e distribuzione Aldo Miguel Grompone, Roma
«Danziamo, danziamo… altrimenti siamo perduti»
Pina Bausch
Extra moenia è una locuzione latina che significa “fuori dalle mura della città”. Vuole indicare un evento o un’attività svolti fuori dalla sede appropriata, fuori dalla propria residenza. Lo spettacolo racconta i momenti di una giornata qualunque in cui una comunità si sveglia, si prepara ed esce di casa per affrontare il mondo. Dalla sveglia mattutina, in un crescendo animato di suoni, parole e gesti, senza una trama precisa si susseguono accadimenti legati al presente. C’è un ferroviere, c’è la donna ucraina che scappa dai bombardamenti, c’è il migrante che arriva dal Congo, c’è il militare che esalta la guerra, ci sono due innamorati che si promettono amore ma lei non si decide a sposarlo, c’è una famiglia religiosa, una donna iraniana, due calciatori del Palermo, c’è lo stupro del branco, il mercato, il lungo elenco dei divieti, c’è il grido di protesta e il canto di speranza. Tutti si ritrovano per strada, fuori dalle mura di casa, per vivere insieme le meraviglie e le miserie della vita. Prima su un treno, poi in una piazza, in una chiesa, al bar, poi di nuovo per strada, al freddo, al caldo, in un posto non sicuro dove un attentato semina il panico fino ad arrivare al mare in un naufragio collettivo. Alla fine della giornata questa comunità è immersa in un mare di plastica dove, dolcemente, si lascia andare alla deriva. Le relazioni, gli incontri, le frustrazioni e i fallimenti sono alcuni dei tasselli del frenetico mosaico di questa giornata. Dall’alba al tramonto tutti e tutte camminano insieme, nella stessa direzione. Il cammino è l’unico modo per liberarsi del proprio fardello in un rituale condiviso, liberatorio e potente. Extra moenia è una ballata allegorica che mostra le atrocità del nostro tempo. Emma Dante Qui per tutte le informazioni.
Milano, MTM – Sala La Cavallerizza, Stagione 2024/25
“BARBABLÙ”
Drammaturgia di Sofia Bolognini
Interpreti: BENEDETTA BRAMBILLA, SEBASTIANO SICUREZZA
Regia Michele Losi
Scene e Costumi Michele Losi, Annalisa Limonta
Suono Luca Maria Baldini, Stefano Pirovano
Luci Stefano Pirovano, Alessandro Bigatti
Produzione Campsirago Residenza
Milano, 04 marzo 2025
E proprio quando credevamo (speravamo?) che fosse andato in letargo, ecco risvegliarsi in quasi tutta la sua essenza il postdrammatico, naturalmente protagonista di una residenza teatrale organizzata in un paesino delle valli lombarde, ovviamente preso a rileggere e rielaborare un classico, insomma comme il faut. “Barbablù” ci riporta indietro di una quindicina d’anni, quando Milano era molto più satura di adesso di spazi teatrali improvvisati in garage, cantine, strutture di non meglio identificato scopo, animate da gruppi a cavallo tra l’amatoriale e il Premio Ubu, il geniale e il disastroso; per nostra fortuna questa produzione non ambisce a toccare nessuna di queste due vette, ma si mantiene più sul livello di una mediocritas che, se non proprio aurea, almeno potremmo definire argentea. Vi sono, in questo spettacolo, infatti, alcuni spunti molto apprezzabili: in primis il talento degli attori Benedetta Brambilla e Sebastiano Sicurezza, che presentano belle vocalità, espressività non scontate, ritmi generalmente accettabili e fisicità consapevoli; la scena di Michele Losi e Annalisa Limonta è pure interessante, dominata da questi brandelli di blue-jeans che rappresentano ogni singola possibilità del male, e che insieme sembrano proprio una barba blu; funzionali e affascinanti anche le luci di Stefano Pirovano e Alessandro Bigatti, perlopiù, ovviamente, su toni freddi, ma capaci anche di inaspettati sprazzi di calore, che non disorientano, ma conferiscono significati nuovi a qualche passaggio; e azzeccati anche i costumi (sempre ad opera Losi-Limonta), manco a dirlo blu, che vogliono in qualche modo richiamare anche l’origine barocca della fiaba. Quello che convince meno invece è proprio la modalità di elaborazione drammaturgica e di messa in scena dell’immortale fiaba di Perrault (ad opera, rispettivamente, di Sofia Bolognini e di Miche Losi); ancor prima di entrare avremmo potuto prefigurarci la sua natura laboratoriale, da studio, coi suoi esercizi ormai codificati in ogni modo – ripetere le cose a specchio, creare sequenze di gesti che supportino/sostituiscano la parola, infrangere i pudori con il turpiloquio, sopportare la prevaricazione fisica dell’altro, riservare alla scena solo l’introspezione simbolica del personaggio e comunicare al microfono o le informazioni circa la vicenda, o il rapporto che l’attore stesso ha costruito col personaggio. Apprezziamo, in questa congerie, che perlomeno non si sia cantata qualche canzone pop degli anni 80 accompagnati da kazoo e ukulele, né si sia proceduto oltremodo a giochi di iterazione. Sia ben chiaro: chi scrive non crede nell’originalità a tutti i costi, quasi ogni regia ripete cose che abbiamo già visto, ma ci si aspetta che siano cose belle, non esercizi di stile spesso fini a se stessi e dall’imperscrutabile comprensione da parte del pubblico medio. Tuttavia, anche in questo contesto, abbiamo apprezzato alcune idee, come quella di far raccontare la storia di Barbablù ai suoi ipotetici figli, quindi a delle creature ibride che non si possano dire davvero avulse a quel male cosmico che si vuole che Barbablù incarni; e con questi occhi da bambini è pure interessante rivivere i grandi genocidi del passato, come naturale eco del localizzato uxoricidio, fino alla semplice presa di responsabilità capace di aprire gli occhi a questi bambini, e a farne, da adulti, dei persecutori del male. Insomma, questo “Barbablù” è uno spettacolo quasi riuscito, che dovrebbe liberarsi da qualche autocompiacimento di troppo per poter parlare chiaramente non solo agli avventori dei teatri. Foto Alvise Crovato
Roma, Teatro Vascello
“RECOLLECTION OF A FALLING”. 30 anni di Spellbound Contemporary Ballet
Forma mentis
Coreografia, Art Direction, Luci, Costumi Jacopo Godani
Musica originale Ulrich Müller
Musica dal vivo Sergey Sadovoy
Assistente alle coreografie Vincenzo De Rosa
Daughters and Angels
Coreografia e regia Mauro Astolfi
Set e disegno luci Marco Policastro
Musica originale Davidson Jaconello
Costumi Anna Coluccia
Assistente alle coreografie Elena Furlan
Interpreti Maria Cossu, Giuliana Mele, Lorenzo Beneventano, Alessandro Piergentili, Anita Bonavida, Roberto Pontieri, Martina Staltari, Miriam Raffone, Filippo Arlenghi
Produzione Spellbound Contemporary Ballet
con il contributo del Ministero della Cultura e della Regione Lazio
in collaborazione con Comune di Pesaro & AMAT per Pesaro Capitale italiana della Cultura 2024, Festival Torino Danza
Roma, 28 febbraio 2025
Parrebbe strano che uno spettacolo dedicato al trentennale della compagnia Spellbound Contemporary Ballet sia in realtà dedicato ad una caduta. Nelle note di sala si fa esplicito riferimento al ricordo della prima caduta, l’attimo in cui si perde l’equilibrio per spingersi verso “esperienze più profonde”. Trent’anni sono parecchi, e i ricordi che li accompagnano anche. Si attraversano diverse tappe, diversi momenti per ricordarsi che non si è indipendenti, ma parte di un tutto. I ricordi sono come un sistema di dati intriso nell’anima ed entrarci dentro serve a riconnettersi con se stessi, per ripartire ancora una volta, per ricostruire. È questa l’idea che spinge ad affidare la prima coreografia della serata a Jacopo Godani, incontrato nel periodo in cui aveva appena lasciato la direzione artistica della Frankfurt Dance Company mentre si svolgeva la pre-produzione del trentennale. Si tratta di un autore immaginifico, la cui potenza ben si incastra con i progetti della compagnia. E Godani dal suo canto ha inteso utilizzare una forma di danza “intelligente” per comunicare con le nuove generazioni. Forma mentis si intitola per l’appunto la prima coreografia. È dunque una piattaforma coreografica vibrante in cui ogni passo si trasforma in una visione, ispirando i danzatori ad alimentare le proprie aspirazioni attraverso una pluralità di idee creative. Partito come un’esplosione di movimenti sull’accompagnamento di una fisarmonica, il pezzo lascia in seguito spazio a duetti che significativamente celebrano in realtà lo stile del direttore della compagnia Mauro Astolfi. I danzatori sono lasciati liberi di divincolare i propri arti quasi fluttuando nello spazio. Centrale è la figura di Maria Cossu, che sembra cercare con lo sguardo il proprio punto di riferimento. Tuttavia, essendo una delle veterane della compagnia, diviene anche coreograficamente una musa per gli altri danzatori, ispirando le loro azioni coreografiche fino al crollo finale. Diversa invece l’ispirazione del secondo pezzo, Daughters and Angels, coreografato dallo stesso Astolfi e immortalato dall’uso di un velo nero, opera di Marco Policastro. Qui si fa riferimento all’immaginario legato alle “streghe”, che interessa il coreografo fin dall’adolescenza, ma lo si rinnova attraverso il tramite della lettura di Knowledge and Powers di Isabel Pérez Molina, pubblicato da un centro di ricerca universitario di Barcellona molto riconosciuto nell’ambito degli studi di genere. Secondo l’autrice del testo, le donne nel loro potere di terapeute fin dall’antichità destabilizzarono il potere patriarcale, al punto da scatenare nel corso dei secoli la caccia alle streghe. La coreografia si fa quindi qui più violenta e oscura, e la seta nera diviene un confine dietro cui sparire o da cui poi riapparire per sfidare il mistero, la notte, l’ignoranza. Una celebrazione di un trentennale che pare dunque svolgersi a ritroso, dal chiaro verso lo scuro. Mauro Astolfi non è del resto dedito a un tipo di coreografia leggera. E nell’andare avanti si propone di continuare a indagare. Foto Cristiano Castaldi
Al teatro Menotti Danio Manfredini, una delle voci più intense e poetiche del teatro contemporaneo, per tre appuntamenti imperdibili:
11 marzo – Divine
Una lettura scenica in cui voce e disegni di Danio Manfredini cuciono una sceneggiatura liberamente ispirata a Notre Dame des Fleurs di Jean Genet. La storia di Divine, un ragazzo che lascia la casa natale per immergersi in una Parigi notturna e clandestina, tra furti, passioni e incontri indelebili.
Info e biglietti: qui
12 marzo – Incontro con Danio Manfredini: 20 anni di Cinema Cielo (ore 19.00)
Un’occasione preziosa per ascoltare dalla voce dell’autore il racconto del viaggio artistico e umano che ha dato vita a Cinema Cielo, a vent’anni dal debutto di questo spettacolo di culto.
Info e biglietti: qui
13 – 16 marzo – Cinema Cielo
Torna in scena uno degli spettacoli più iconici di Manfredini, Premio Ubu 2004 per la miglior regia. Un’opera che porta lo spettatore all’interno di un vecchio cinema a luci rosse, dove le ombre del presente si intrecciano con quelle del romanzo di Jean Genet, in un gioco di specchi tra realtà e poesia.
Info e biglietti: qui
Roma, Palazzo Barberini, Gallerie Nazionali di Arte Antica
CARAVAGGIO 2025
a cura di Francesca Cappelletti, Maria Cristina Terzaghi e Thomas Clement Salomon
progetto delle Gallerie Nazionali di Arte Antica
realizzato in collaborazione con Galleria Borghese
con il supporto della Direzione Generale Musei – Ministero della Cultura, con il sostegno del Main Partner Intesa Sanpaolo
con il supporto tecnico di Coopculture per i servizi al pubblico e di Marsilio Arte per la pubblicazione del catalogo.
Roma, 06 marzo 2025
Se la pittura ha mai conosciuto un eroe, questi ha un nome: Michelangelo Merisi da Caravaggio. Eroe per eccesso, per talento, per tormento. Le Gallerie Nazionali di Arte Antica gli rendono omaggio con Caravaggio 2025, mostra che ambisce a tracciare nuove rotte critiche e a portare sotto una luce rinnovata il percorso del pittore che, più di ogni altro, ha inciso a fuoco il naturalismo nell’anima della pittura moderna. Ma la luce di Caravaggio non è mai concessa con generosità: essa illumina e acceca, rivela e sottrae, si contorce nella drammaticità del vero. L’allestimento è classico nella sua impostazione museale e si sviluppa su tre sale, dove l’uso della luce diventa elemento di costruzione scenica. Tuttavia, tra ombre fin troppo dense e scritte espositive esili e poco illuminate, si rischia di compromettere la leggibilità dell’apparato critico. La prima sala appare eccessivamente densa, con un numero di opere che rischia di soffocarsi a vicenda, rendendo difficile un’esperienza contemplativa. L’affollamento dei visitatori renderà arduo avvicinarsi alle didascalie, la cui dimensione ridotta e la scarsa illuminazione rappresentano un ulteriore ostacolo alla fruizione. Con ventiquattro opere provenienti dalle più illustri collezioni pubbliche e private, Caravaggio 2025 non si accontenta di esibire capolavori, ma intende raccontare l’artista nel suo farsi. Il percorso, diviso in quattro sezioni, si apre con gli anni romani e l’incontro decisivo con il cardinale Francesco Maria del Monte, figura cruciale nel primo sviluppo della sua carriera. I Musici, la Buona Ventura, i Bari emergono come icone di una pittura ancora in bilico tra manierismo e naturalismo, in cui la luce, più che rivelare, inizia a creare. Segue la sezione dedicata ai ritratti, con la straordinaria opportunità di confrontare due versioni del Ritratto di Maffeo Barberini, una delle quali recentemente riemersa e attribuita con fermezza da Roberto Longhi nel 1963. Qui Caravaggio è magistrale nel tratteggiare la psicologia dei suoi soggetti, penetrandoli con un realismo che è più di un esercizio pittorico: è una sfida al tempo, un’insolenza alla morte. Il cuore pulsante della mostra si trova nella sezione dedicata alle grandi tele di soggetto sacro. Il San Giovanni Battista, la Giuditta e Oloferne, il San Francesco in meditazione si collocano lungo un’ideale traiettoria che dal teatro della violenza approda al mistero della penitenza. L’Ecce Homo, recentemente riscoperto e mai visto in Italia dopo quattro secoli, è forse il vertice di questo segmento espositivo: qui il Merisi scompone il pathos della Passione in una visione disarmante, in cui il dolore è trattenuto, negato, reso quasi burocratico nella sua inesorabilità. L’epilogo della mostra ha il sapore di una fuga senza scampo, quella di Caravaggio stesso, braccato non solo dalla giustizia terrena, ma dall’inesorabile rovina del suo destino. Le opere dell’ultimo periodo – il Martirio di Sant’Orsola, il David con la testa di Golia – non si limitano a rappresentare un dramma sacro, ma sembrano trascrivere in pittura l’urgenza disperata dell’artista, la sua identificazione con l’eroe vinto, con il peccatore in cerca di redenzione, con il carnefice che diventa vittima. Visitando Caravaggio 2025, si ha la sensazione di assistere a un dramma in cui il sipario non si apre mai del tutto, lasciando lo spettatore in un’attesa costante, quasi soffocata dall’allestimento che non sempre restituisce il respiro necessario alle tele. Se da un lato la luce, cupa e incalzante, amplifica la tensione emotiva dell’opera caravaggesca, dall’altro il percorso espositivo impone limiti alla piena comprensione del gesto rivoluzionario dell’artista. Tuttavia, la mostra si rivela un’operazione che non si esaurisce nell’esposizione, ma si configura come un atto di affermazione per Palazzo Barberini, che trova nella mitizzazione di Caravaggio un potente vettore per riportare l’attenzione su sé stesso e sulle potenzialità di un luogo non sempre al centro dei grandi circuiti museali. A questa rinascita contribuisce anche il catalogo edito da Marsilio, che non si limita a documentare l’esposizione, ma si impone come strumento di studio imprescindibile, capace di aprire nuove prospettive critiche e linee di ricerca su un artista che, ancora oggi, continua a sfidare la nostra capacità di vedere. Photocredit Alberto Novelli, Alessio Panunzi
Salvatore Pappalardo (Catania 1817 – Napoli 1884): Quartetto n. 1 in do maggiore op. 4; Giovanni Pacini (Catania 1796 – Pescia 1867): Quartetto n. 2 in do maggiore. Quartetto di Catania. Augusto Vismara (Violino). Marcello Spina (Violino). Gaetano Adorno (Viola). Alessandro Longo (Violoncello). Registrazione: presso TRP Studios, Tremestieri Etneo (CT), 2023. T. Time: 59′ 36″. 1 CD TRP-CD0081
Il nome di Giovanni Pacini, compositore contemporaneo di Bellini, noto soprattutto per alcune sue opere, è accostato in questa produzione discografica dell’etichetta TRP, a quello di un altro musicista anche lui catanese, Salvatore Pappalardo, nato nel 1817 nella città etnea e morto nel 1884 a Napoli dove fu compositore di camera del conte di Siracusa, Don Leopoldo di Borbone, e dove fu insegnante di contrappunto presso l’Albergo dei Poveri. Entrambi operisti, i due compositori sono presenti in questo CD nell’insolita veste di autori di musica strumentale, in quanto della loro produzione sono presentati il Quartetto n. 1 in do maggiore op. 4 di Pappalardo e il Quartetto n. 2 in do maggiore di Pacini. Apprezzato dai contemporanei, come si evince da una recensione, apparsa in seguito ad un’esecuzione fatta dal Quartetto di Firenze, dove si leggeva “il quartetto di Pappalardo è opera improntata di originalità tutta propria”, il primo è un lavoro in quattro movimenti, di piacevole ascolto, che rivela la solida preparazione musicale del suo autore e si può catalogare tra quelle opere nel quale si evidenzia un buon mestiere. Più interessante e originale appare sicuramente il lavoro di Pacini, nel quale, oltre ad alcune inflessioni “operistiche” di alcuni passi, si evidenziano il terzo movimento, Andantino affettuoso, per la cantabilità di alcune sue parti, e il quarto, Allegro, che si segnala per la bella scrittura melodica. Una solida professionalità contraddistingue la performance degli artisti del quartetto di Catania composto da Augusto Vismara (Violino) e Gaetano Adorno (Viola), artefici della riscoperta di questi lavori che faranno parte di un progetto più ampio che coinvolgerà in successive produzioni discografiche anche l’altro compositore catanese Pietro Platania, e da Marcello Spina (Violino) e Alessandro Longo (Violoncello). Ben evidenziato è nel complesso l’ordito polifonico sempre sostenuto da un bel suono da parte degli artisti che in questa incisione mostrano un grande affiatamento. Si tratta di un CD di piacevole ascolto che, comunque, non fa gridare ai capolavori dimenticati e ritrovati.