Dramma per musica in tre atti su libretto di Giovanni Schmidt. Moisés Marín (Goffredo), Michele Angelini (Rinaldo), Jusung Gabriel Park (Idraote), Ruth Iniesta (Armida), Patrick Kabongo (Gernando), Manuel Amati (Eustazio), César Arrieta (Ubaldo), Chuan Wang (Carlo), Shi Zong (Astarotte). Kraków Philharmonic Chorus, Marcin Wróbel (Maestro del Coro), Kraków Philharmonic Orchestra, José Miguel Pérez-Sierra (direttore), Registrazione: Trinkhalle, Bad Wildbad, 15-20 luglio 2022. 2 Cd Naxos 8.660554-55
Il festival di Bad Wilbad è un’istituzione ammirevole per molti punti di vista che con possibilità economiche invero modeste riesce a presentare un buon cartellone e a volte a ottenere risultati apprezzabili. Il repertorio rossiniano – scelto come filo conduttore del festival fin dalla sua nascita – è particolarmente impegnativo e le incognite sono notevoli. A volte – come nel caso di “Ermione” – si riesce a ottenere un risultato complessivo migliore di quanto le singole parti possano far sperare ma in altri casi non si riesce ad ottenere la ciambella con il giusto buco.
E’ purtroppo il caso di “Armida” allestita per l’edizione 2022 del festival e risultante non pienamente soddisfacente nonostante l’innegabile impegno. “Armida” è uno dei titoli più complessi e sfuggenti dell’intero catalogo rossiniano tanto che è ancora difficile identificare un’edizione di assoluto riferimento e la “Maga” ha creato non pochi problemi anche a istituzioni più blasonate del festival tedesco.
A Bad Wilbad l’insieme mantiene una sua coerenza grazie all’attenta direzione di José Miguel Perez Sierra, direttore dai lunghi trascorsi rossiniani che riesce a dare della partitura una lettura solida e puntuale, riuscita sul piano delle dinamiche e del gioco dei contrasti con una prevalenza per timbri brillanti e colori sostenuti che si apprezzano nei lunghi balletti che rappresentano uno dei tratti più originali di quest’opera in cui Rossini anticipa – ancora nel pieno della stagione napoletana – moduli che saranno fatti propri dal grand’opéra parigino che si codificherà nei decenni seguenti. I complessi della Kraków Philharmonic si mostrano una formazione di solido professionismo ma che si scontra con l’originalità dello strumentale rossiniano. Cercheremmo qui invano quegli elementi esotici – dai sistri alla banda turchesca – usati da Rossini per dare alla sua musica un sapore medio-orientale e qui banalmente sostituiti da ordinari strumenti da orchestra.
Il mito di “Armida” è strettamente legato alla proliferazione delle parti tenorili, per altro in parte assommabili su un numero minore d’interpreti in quanto alcune parti non cantano mai in contemporanea ma è soprattutto la protagonista femminile a rappresentare un cimento da far tremare i polsi. Scritta per una Isabella Colbran al culmine delle proprie possibilità la parte si Armida si distende su una tessitura assai ampia e richiede un perfetto controllo vocale in ogni tipologia di passaggi d’agilità; inoltre il carattere del personaggio fatto di scarti espressivi estremi richiede che la “virtuosa” sia anche interprete di provata personalità. Qui abbiamo Ruth Iniesta soprano lirico-leggero avvezzo ai lirismi di Amina e Gilda che si trova catapultata in una parte che spesso batte su una tessiture per lei disagevole e che la costringono a giocare sempre in difesa. Persino nei momenti più lirici e potrebbero essere più nelle sue corde, come la celebre “D’amor al dolce impero” si percepisce una prudenza che sfiora il timore e annacqua le polveri dei fuochi d’artificio vocali. Lo stesso accade, quasi ovvio, nei “furori” della scena finale nonostante l’attenzione e l’impegno che la Iniesta mette per domare la parte. Ne apprezziamo la piacevolezza del Il timbro e il solido registro acuto, ma per Armida questo non basta.
I tenori nel complesso non cantano male ma purtroppo si ascolta uno scarso contrasto timbrico, così che il gioco di differenze di personalità drammatico-vocali così attentamente ricercato da Rossini viene in gran parte a perdersi.
Michele Angelini che non ci era parso esaltante nel “Marin Faliero” bergamasco al Donizetti Festvial 2020, qui appare più centrato. Di Rinaldo coglie prevalentemente i tratti più lirici dove può far valere una voce piacevole, acuti facili e buon gusto nelle colorature. I duetti con Armida sono ben cesellati ma quando il canto si fa più drammatico e si vorrebbe maggior corpo vocale emergono i limiti interpretativi. Discorso per molti versi simili per Patrick Kabongo (Gernando). Voce piccola ma ottimo senso stilistico e canto pulito ed elegante convince appare convincente finché la tensione non sale ma purtroppo il duetto con Rinaldo così simile a quello dell’”Otello” appare alquanto sbiadito con due voci troppo simili fra loro e nessuna delle due in grado di dare al brano la giusta smaltatura.
Moisés Marín ci aveva sorpreso come Pirro, qui come Goffredo non canta male ma appare più generico e fin troppo calato nell’uniformità generale da cui per nulla si elevano – nonostante la correttezza di fondo – Manuel Amati (Eustazio), César Arrieta (Ubaldo) e Chuan Wang (Carlo). Discorso non dissimile per i due bassi Jusung Gabriel Park (Idraote) e Shi Zong (Astarotte) funzionali alla resa complessiva ma incapaci di imporre un sigillo più personale in due ruoli – bisogna riconoscerlo – abbastanza anonimi già di loro.
Roma, Teatro Argentina
TRE MODI PER NON MORIRE
Baudelaire, Dante, i Greci
di Giuseppe Montesano
con Toni Servillo
luci Claudio De Pace
Roma, 08 gennaio 2025
Toni Servillo, con il suo spettacolo “Tre modi per non morire”, incarna l’essenza di un’esperienza teatrale che trascende la mera rappresentazione scenica, configurandosi come un itinerario intellettuale e filosofico di straordinaria densità. Questo viaggio, che si propone di contrastare l’appiattimento del pensiero e la progressiva alienazione indotta dalla dipendenza tecnologica, è un monito vibrante e potente sulla necessità di riappropriarsi del pensiero critico e della bellezza poetica. Andato in scena al Teatro Argentina di Roma, il monologo, scritto dal raffinato Giuseppe Montesano, è una coproduzione che vanta la collaborazione di prestigiose istituzioni teatrali quali il Piccolo Teatro di Milano e la Fondazione Teatro di Napoli. Il palco, volutamente spoglio, ridotto all’essenziale con un microfono e un leggio, rappresenta un manifesto estetico: è la parola, densa e scolpita, che assume il ruolo di protagonista, sorretta dall’imponente carisma di Servillo. La scelta minimalista non è solo estetica ma anche simbolica, un invito a concentrarsi sull’essenza della narrazione, priva di distrazioni superflue. “La poesia e l’arte in che modo possono attaccarci alla vita e farci riflettere sulla loro potenza salvifica?”: questa domanda guida l’intero spettacolo. Toni Servillo e Giuseppe Montesano esplorano la risposta attraverso un percorso che si snoda tra Baudelaire, Dante e i Greci, accompagnando lo spettatore in un viaggio culturale e spirituale. Baudelaire, che in “Monsieur Baudelaire, quando finirà la notte?” descrive la bellezza come medicina contro la depressione e l’ingiustizia, offre una visione lucida e poetica della resistenza dell’anima. La notte, metafora dell’oscurità interiore e sociale, termina solo quando si trova il coraggio di “levare l’ancora e partire verso l’ignoto”, un invito all’audacia del pensiero e dell’azione. Il secondo segmento è dedicato a Dante Alighieri, pilastro della cultura italiana e universale. Attraverso le sue “voci”, Servillo ci conduce negli abissi dell’Inferno, dove i personaggi della Divina Commedia prendono vita con una potenza evocativa straordinaria. Paolo e Francesca, trafitti dall’amore e condannati a un destino eterno, narrano di un libro, galeotto, che li unì in un bacio che fu la loro rovina. Ulisse, con il suo invito a “non vivere come bruti, ma a seguir virtute e canoscenza”, ammonisce l’umanità sull’importanza della conoscenza e del coraggio. Il finale, con l’emblematica uscita “a riveder le stelle”, è un gesto di speranza che illumina l’oscurità dell’esistenza. L’ultima tappa si immerge nel pensiero greco, celebrando il teatro e la filosofia come strumenti supremi di liberazione. «I Greci hanno inventato tutto», dichiara Servillo, enfatizzando la grandezza di una civiltà che ha saputo aspirare all’eternità attraverso l’arte e il pensiero. Il mito della caverna di Platone è l’ultimo scorcio nel quale l’attore ci tuffa, sollecitandoci a riflettere su quali siano oggi le catene che imprigionano le nostre menti. Come Platone invita lo schiavo libero a non tornare indietro, ma a dirigersi verso la luce, così Servillo esorta lo spettatore a non cedere alle ombre della modernità, rappresentate dalla superficialità e dalla distrazione tecnologica. L’arte, secondo i Greci, non era un passatempo, ma un nutrimento quotidiano dell’anima, capace di illuminare le zone più oscure dell’esistenza. Ciò che rende “Tre modi per non morire” un’esperienza unica è la straordinaria capacità di Toni Servillo di trasfigurare il testo in un evento vivo e pulsante. La sua voce, potente e modulata con maestria, diventa il veicolo di un’emozione autentica, capace di toccare corde profonde nell’animo dello spettatore. Ogni parola, pronunciata con un rigore quasi sacrale, si staglia come un’opera d’arte, creando un dialogo intimo e coinvolgente tra l’interprete e il pubblico. Servillo cesella la parola, la scolpisce, la manipola con un’abilità unica, alternando toni sussurrati e momenti di intensità drammatica senza mai scivolare nel virtuosismo fine a se stesso. Questa capacità di padroneggiare il linguaggio teatrale – diverso da quello cinematografico – è il segno distintivo di un grande artista, capace di distinguersi in entrambi gli ambiti senza confonderne i codici espressivi. Il minimalismo della scenografia amplifica l’intensità dell’esperienza teatrale. In assenza di distrazioni visive, l’attenzione si concentra sulla forza intrinseca del linguaggio e sulla presenza scenica di Servillo. La sua capacità di creare immagini attraverso le parole è un tributo al potere evocativo del teatro, che si conferma come uno spazio privilegiato di riflessione e condivisione. In un contesto storico caratterizzato dalla velocità e dalla superficialità, “Tre modi per non morire” si erge come un manifesto contro la disumanizzazione e l’omologazione. La poesia, la filosofia e il teatro, intrecciati in un dialogo serrato, si offrono come strumenti per riscoprire la profondità dell’esistenza e la bellezza dell’umanità. Lo spettacolo non si limita a intrattenere, ma invita a una riflessione profonda, stimolando un senso di responsabilità culturale e intellettuale. Il pubblico, trascinato in un viaggio che attraversa secoli di cultura, esce dal teatro con la consapevolezza di aver assistito a qualcosa di straordinario. Non si tratta solo di un evento artistico, ma di un atto di resistenza culturale, un richiamo potente a riappropriarsi del tempo per pensare, per ascoltare e per immaginare un futuro diverso. Servillo, con la sua arte, riesce a dimostrare che il teatro è ancora uno spazio necessario, capace di dare senso al caos della modernità. “Tre modi per non morire” non è solo uno spettacolo: è un invito a riscoprire la poesia come forma di vita, la filosofia come guida e il teatro come luogo di verità. In un mondo in cui la velocità e l’effimero sembrano prevalere, questa rappresentazione ci ricorda che la bellezza e il pensiero sono le armi più potenti contro la mediocrità e l’oblio.
Napoli, Teatro San Carlo
DON CARLO
Il Teatro di San Carlo apre le porte a una delle opere più straordinarie del repertorio verdiano: Don Carlo, un capolavoro che intreccia la grande storia con la profondità dei sentimenti umani. Composta da Giuseppe Verdi su libretto di Joseph Méry e Camille du Locle, tratto dal dramma Don Carlos, Infant von Spanien di Friedrich Schiller, quest’opera in cinque atti sarà presentata nella versione italiana di Achille De Lauzières e Angelo Zanardini, arricchendo la stagione con una produzione di rara intensità artistica. Al centro della scena si erge Filippo II, interpretato dalla voce profonda e autorevole di John Relyea, contrapposto al figlio ribelle, Don Carlo, a cui dà voce il tenore Piero Pretti. Il loro complesso rapporto, fatto di conflitti personali e tensioni politiche, si snoda sullo sfondo della corte spagnola, dove Rodrigo, il marchese di Posa, incarnato dal baritono Gabriele Viviani, emerge come simbolo di lealtà e amicizia, ma anche di tragica idealità. Accanto a loro, Elisabetta di Valois, la regina divisa tra dovere e amore, è affidata al debutto al San Carlo di Rachel Willis-Sørensen, la cui interpretazione promette di catturare il cuore del pubblico. A complicare ulteriormente il già intricato intreccio, Varduhi Abrahamyan nel ruolo della principessa Eboli dà vita a un personaggio pieno di fascino e ambiguità. La tensione drammatica culmina con la presenza del Grande Inquisitore, affidata alla potenza vocale di Alexander Tsymbalyuk, e del Frate, interpretato da Giorgi Manoshvili, figure che incarnano la spietatezza del potere religioso e politico. La narrazione è arricchita dalla partecipazione di artisti di talento che completano il quadro della corte: Maria Knihnytska sarà Tebaldo, Ivan Lualdi darà voce al Conte di Lerma, e Désirée Giove interpreterà Una voce dal cielo, simbolo di speranza e redenzione. I deputati fiamminghi, portatori di un coro di sofferenza e resistenza, saranno rappresentati da Sebastià Serra, Yunho Kim, Maurizio Bove, Ignas Melnikas, Giovanni Impagliazzo e Antimo Dell’Omo. Questa sontuosa produzione vede alla guida musicale Henrik Nánási, che condurrà l’Orchestra e il Coro del Teatro di San Carlo, quest’ultimo preparato dal maestro del coro Fabrizio Cassi. La regia, affidata a Claus Guth, promette una lettura visivamente innovativa e drammaturgicamente coinvolgente, grazie anche alle scenografie di Etienne Pluss, ai costumi di Petra Reinhardt, alle luci curate da Olaf Freese e riprese da Virginio Levrio, e ai video di Roland Horvath, il tutto coordinato dalla drammaturgia di Yvonne Gebauer. Realizzata in coproduzione con il Latvijas Nacionālā Opera un Balets, questa nuova messa in scena di Don Carlo celebra il genio di Verdi, invitando il pubblico a immergersi in un’esperienza artistica senza tempo, dove musica e teatro si fondono in un racconto universale di passione, potere e sacrificio. Qui per tutte le informazioni.
Roma, Teatro dell’Opera
TOSCA
Nel magnifico scrigno del Teatro Costanzi, luogo dove per la prima volta risuonò nel 1900 la passione tragica e intensa di Tosca, torna ad alzarsi il sipario sul capolavoro romano per eccellenza di Giacomo Puccini. La Stagione 2024/2025 del Teatro dell’Opera di Roma si apre il 14 gennaio alle ore 20 con un nuovo allestimento che ripercorre, con filologica raffinatezza, l’impianto scenico originario. Il dramma di Tosca, musicato su libretto di Giuseppe Giacosa e Luigi Illica e tratto dall’omonima opera di Victorien Sardou, si dispiega in una Roma ottocentesca cupa e sensuale, dove l’amore, la politica e la morte intrecciano i loro fili in una trama di straordinaria potenza emotiva.La regia di Alessandro Talevi si propone di far rivivere l’allestimento storico del 1900, un tributo al genio visionario di Adolf Hohenstein, le cui scene sono ricostruite fedelmente da Carlo Savi, mentre Anna Biagiotti riprende i costumi originali, restituendo al pubblico l’autenticità di un’epoca. Le luci di Vinicio Cheli completano l’affresco teatrale, esaltando gli spazi e i contrasti che definiscono il dramma di Tosca. Alla guida dell’Orchestra e del Coro del Teatro dell’Opera di Roma, il Maestro Michele Mariotti (14 e 16 gennaio) e il Maestro Francesco Ivan Ciampa (17, 18 e 19 gennaio) interpretano la partitura pucciniana, mentre il Coro è affidato alla direzione di Ciro Visco, capace di intessere le voci in una polifonia vibrante e drammatica. Nel ruolo della protagonista, l’intensa Saioa Hernández darà vita a Floria Tosca, un personaggio femminile che incarna la passione e la forza tragica, mentre Gregory Kunde vestirà i panni di Mario Cavaradossi, l’ardente pittore condannato dall’amore e dalla politica. Scarpia, il barone spietato e ambiguo, è interpretato da Igor Golovatenko. Nelle repliche del 17 e 19 gennaio, il testimone passa ad Anastasia Bartoli nel ruolo di Tosca, a Vincenzo Costanzo come Cavaradossi e a Gevorg Hakobyan come Scarpia. Completano il cast Luciano Leoni come Cesare Angelotti, Domenico Colaianni nel ruolo del Sagrestano e Saverio Fiore nei panni di Spoletta. La Scuola di Canto Corale del Costanzi partecipa per infondere ulteriore coralità e profondità alla messa in scena. Il pubblico potrà assistere alle repliche il 16 e 17 gennaio alle ore 20, il 18 gennaio alle 18 e il 19 gennaio alle 16:30, con la prima del 14 gennaio trasmessa in diretta su Radio3 Rai, per consentire anche agli ascoltatori più lontani di partecipare a questo evento di raro fascino. L’epopea di Tosca continuerà a riecheggiare tra le mura del Costanzi con ulteriori rappresentazioni dal 1° al 6 marzo e dal 9 al 13 maggio, consolidando il suo posto d’onore nel cuore della Stagione 2024/2025. I biglietti sono disponibili online su www.ticketone.it, per un appuntamento imperdibile che celebra la memoria, il dramma e la bellezza senza tempo dell’opera pucciniana.
Roma, Auditorium della Conciliazione
BERNADETTE DE LOURDES
Dopo l’enorme successo ottenuto in Francia, arriva per la prima volta in Italia “BERNADETTE DE LOURDES”, il musical che, con il suo linguaggio moderno e universale, racconta la vera storia della giovane ragazza francese Bernadette Soubirous. La versione italiana sarà in scena dal 16 gennaio al 16 febbraio all’Auditorium Conciliazione di Roma, per poi proseguire l’8 marzo al Teatro PalaPartenope di Napoli, il 15 e il 16 marzo al Teatro Team di Bari e il 28, il 29 e il 30 marzo al Teatro Alfieri di Torino. Ambientato nel sud-ovest della Francia nell’Ottocento, “Bernadette De Lourdes” narra la straordinaria storia di una quattordicenne che – pur vivendo nella famiglia più indigente del paesino francese in condizioni difficili, di analfabetismo e di estrema povertà – diventa una figura capace di ispirare ancora oggi milioni di persone. Una storia che va oltre il credo religioso e che racconta il coraggio e la forza d’animo di chi vive ai margini della società, celebrando la capacità di resilienza di una giovane donna che, nonostante le avversioni e le pressioni del mondo, rimane fedele a se stessa. Il musical, inserito nel cartellone ufficiale del Giubileo, affronta temi universali che parlano a tutti, in particolar modo ai giovani che potranno riconoscersi nella protagonista, un’adolescente che dimostra che, anche chi sembra non avere voce, può influenzare profondamente la società. Acclamato per la sua alta qualità artistica, lo spettacolo è entrato a pieno titolo nella tradizione dei grandi musical francesi come “Notre Dame de Paris” e “Les Misérables” grazie alla sua trama intensa, alle musiche e alle scenografie immersive che dalla sua prima rappresentazione nel 2019 hanno conquistato spettatori di ogni età, origine e fede. La giovane Bernadette è interpretata da Gaia Di Fusco, mentre David Ban veste i panni del padre e Chiara Luppi quelli di Louise Casterot Soubirous. Fabrizio Voghera è l’Abate Peyramale e Christian Ruiz interpreta il Commissario Jacomet. La regia e il libretto sono di Serge Denoncourt (che ha lavorato con il Cirque du Soleil ed Eros Ramazzotti), con musiche composte da Grégoire, i testi sono scritti da Lionel Florence e Patrice Guirao, l’adattamento e la traduzione è a cura di Vincenzo Incenzo. Scenografie, costumi e arrangiamenti sono curati rispettivamente da Stéphane Roy, Mérédith Caron e Scott Price. Prodotto da Éléonore de Galard e Roberto Ciurleo (artefici di grandi show come “Tre moschettieri”, “Saturday Night Fever” e “Robin Hood” in Francia) e da Gad Elmaleh e Fatima Lucarini, il musical si basa esclusivamente su documenti autentici e verbali dell’epoca. La produzione esecutiva è di Coesioni. Inoltre, nel 2026 il film dello spettacolo originale francese arriverà nei cinema di oltre 100 Paesi, mentre il musical approderà a Broadway e in altri teatri statunitensi.
Venezia, Teatro Malibran, Stagione Sinfonica 2024-2035
Orchestra del Teatro La Fenice
Direttore Chistian Arming
Musiche di Johann Strauss figlio e Richard Strauss
Venezia, 5 gennaio 20225
Diffusosi a Vienna – come nelle altre capitali austroungariche ed europee – a partire dagli ultimi decenni del XVIII secolo, il valzer divenne il protagonista indiscusso, quanto alla musica da ballo, nel secolo successivo. Nei palazzi e nei caffè imperiali si ballava il valzer, fino a quando la guerra, scoppiata nel 1914, non pose fine, in modo apparentemente inaspettato, alla spensieratezza e all’edonismo della vita mondana di allora. Una particolarità del valzer viennese è quella di non rispettare esattamente il canonico tempo di tre quarti, anticipando nonché prolungando il secondo quarto e, dunque, ritardando il terzo: ne risulta la sensazione che la melodia si libri nell’aria con una leggerezza pari all’eleganza. Il che poi è l’anima di questa nobile danza, su cui Johann Strauss figlio basò tante composizioni famose, meritandosi l’appellativo di Walzerkönig (Re del valzer). Ampiamente dedicato ai valzer del più noto rampollo della famiglia Strauss era il concerto diretto da Christian Arming, viennese ed erede della più genuina tradizione musicale legata a questa danza, che è uno dei simboli più prestigiosi della Capitale asburgica. Sotto la sua sapiente bacchetta l’Orchestra della Fenice, più che mai in forma, ha affrontato con straordinaria duttilità un repertorio che, aperto dall’ouverture della Fledermaus, coniugava ai valzer più famosi, alcune marce e polche dell’autore viennese. Composizioni, in qualche modo, celebrative del buon tempo antico, seppure – in molti casi – non prive di nostalgia per l’Austria felix e percorse da qualche presagio della fine. Una Finis Austriae, che Richard Strauss e Hugo von Hofmannsthal avvertirono con struggente malinconia come testimonia il Rosenkavalier – di cui si è ascoltata nel corso della serata la Suite per orchestra op. 59 –, ambientato durante il primo regno di Maria Teresa, ma in realtà espressione dell’inquieta Vienna di Francesco Giuseppe, ormai prossima ad un tragico epilogo. Veramente godibile questa rassegna di brani, che avrebbero potuto costituire il programma di un Neujahrskonzert a Vienna e che segna, se ce fosse ancora bisogno, la fine di presunte quanto assurde polemiche tra Fenice e Musikverein all’insegna dell’universalità della musica, che deve affratellare anziché dividere, soprattutto quando viene eseguita da artisti che ne colgono l’essenza, anche attraverso il dominio della forma. È il caso, come si è detto, del maestro Arming, che ha saputo guidare, con gesto autorevole e minuzioso – a sottolineare con amorevole cura ogni sfumatura, ogni accento – l’Orchestra della Fenice: dalla gaia e nostalgica ouverture della Fledermaus – dove l’oboe ha brillato nel suo languido assolo – alle tre briose polche (Éljen a Magyar!; Pizzicato Polka; Tritsch-Tratsch Polka); dall’esotica Egyptischer-Marsch ai valzer (Wein, Weib und Gesang!; Rosen aus dem Süden; Wiener Blut; Kaiser-Walzer), alla Suite da Der Rosenkavalier – composta da Richard Strauss alla fine della Seconda Guerra mondiale, nel 1945 –, che riunisce vari spunti musicali dell’opera, tra cui i valzer, particolarmente interessanti per la loro veste armonica, che conferisce ad essi un valore simbolico-evocativo, compreso il “mozartiano” valzerino della colazione, che presenta a un certo punto alcune dissonanze – aspre sonorità dall’effetto straniante – di gusto assolutamente primo-novecentesco. Reiterati applausi, a fine serata, ad omaggiare il direttore e l’orchestra. Due “canonici” fuoriprogramma: An der schönen blauen Donau e Radetzky-Marsch con l’immancabile coinvolgimento del pubblico.
Roma, Teatro Vascello
BAHAMUTH
di Flavia Mastrella ed Antonio Rezza
con Antonio Rezza
e con Manolo Muoio, Neilson Bispo Dos Santos
liberamente associato al “Manuale di zoologia fantastica” di J.L. Borges e M. Guerrero
Roma, 07 gennaio 2025
Bahamuth, il nuovo spettacolo firmato Antonio Rezza e Flavia Mastrella, è una di quelle esperienze teatrali che non ti lasciano scampo. Presentato al Teatro Vascello, questa produzione della Fabbrica dell’Attore ha la straordinaria capacità di farti sentire tanto intelligente quanto completamente perso, come se Borges e un giocattolo di legno avessero deciso di allearsi per confondere le tue certezze. La durata di un’ora e venti minuti senza intervallo potrebbe sembrare un regalo per chi ha fretta di andare a casa, ma in realtà è una trappola: il tempo si dilata, si contorce, ti intrappola in un universo frammentato fatto di corpi che sembrano alieni e oggetti che sembrano usciti da un laboratorio di scultura per folletti ribelli. Flavia Mastrella, con la sua scatola scenica, non ha costruito semplicemente un set, ma un habitat. Non aspettatevi piante o animali: qui si parla di stoffa, metallo e legno che respirano, vibrano e mettono in crisi ogni idea di staticità. È come se il teatro si fosse stancato di essere una stanza e avesse deciso di diventare un enigma. Lo spettacolo si apre con tre prologhi. Sì, tre. Perché uno solo sarebbe troppo facile. Un uomo steso diventa un tiranno, ma di quelli che ti fanno sorridere per nervosismo, seguito da un atleta di Dio che sembra scappato da un circo esistenzialista e da un nano ambizioso, più basso delle sue stesse aspettative. Qui niente è a misura d’uomo, e questo è il punto. Antonio Rezza si muove sul palco come se avesse litigato con la gravità: salta, corre, si accartoccia su se stesso, il tutto con una fisicità che fa sembrare il resto di noi una massa di molluschi poco motivati. E mentre lo guardi, ti chiedi se hai mai veramente capito cosa significhi essere un corpo. Il ritmo dello spettacolo è un mistero in sé. Non è solo una questione di movimenti o di battute, ma di come ogni elemento – parola, gesto, urlo – sembra arrivare da un universo parallelo dove il caos è la legge. La scatola scenica di Mastrella non è solo un contenitore: è un’idea che si muove, che respira, che sfida lo spazio e le tue percezioni. È aperta, instabile, un giocattolo per giganti o per bambini troppo cresciuti. I due assistenti in scena, Manolo Muoio e Neilson Bispo Dos Santos, non sono solo comparse, ma complici di un gioco che prende il concetto di serietà e lo lancia fuori dalla finestra. E poi c’è Bahamuth. No, non il Bahamuth dei videogiochi o delle leggende. Questo è un essere supremo che appare e scompare come un’idea geniale che ti sfugge proprio quando stai per afferrarla. È simbolo, è provocazione, è tutto quello che vuoi che sia, tranne semplice. E mentre cerchi di capirlo, Rezza porta il suo corpo all’estremo, trasformando ogni salto, ogni movimento verticale, in un grido contro la banalità. Se la mente si rifugia nella comodità del pensiero, il corpo qui è costretto a soffrire, a lottare, a esprimere tutto quello che le parole non possono dire. E poi ci sono le urla. Perché parlare è troppo mainstream. Le urla diventano musica, ritmo, una nuova grammatica che Rezza inventa davanti ai tuoi occhi. Non sono urla di dolore o di rabbia, ma urla che prendono le vocali, le allungano, le trasformano in un linguaggio che nessun dizionario potrà mai codificare. È un modo per ricordarti che il teatro non è fatto per essere comodo o compreso al primo colpo. È un’esperienza, e come tutte le esperienze, può essere meravigliosa e scomoda allo stesso tempo. E mentre il corpo urla e la mente lotta per tenere il passo, lo spazio scenico diventa il terzo protagonista di questa sfida esistenziale. La scatola di Flavia Mastrella, con il suo design intricato, crea un dialogo costante tra rigidità e flessibilità. Gli oggetti non sono semplici accessori, ma estensioni delle emozioni che si consumano sul palco. Le aste fluorescenti che delineano i confini del giocattolo sembrano esplodere in mille direzioni, suggerendo la possibilità di una fuga, ma allo stesso tempo intrappolano lo spettatore in un labirinto di significati che non hanno mai una sola risposta. La scatola, però, non è soltanto scenografia: è metafora e provocazione. Con la sua illusione di chiusura, mette in discussione la nostra percezione del confine tra realtà e rappresentazione. Non importa quanto siano grandi i suoi spazi o quanto siano vibranti i suoi colori: ciò che conta è come questa struttura riesca a contenere, e al contempo liberare, il caos emotivo e fisico che Antonio Rezza porta in scena. È un microcosmo che riflette la nostra società, un luogo in cui l’apparente ordine nasconde sempre un sottofondo di disordine. Lo spettacolo si conclude con un’immagine che ti lascia senza fiato. I personaggi, ridotti a strumenti dell’autore, rivelano la loro condizione di pedine in un gioco più grande di loro. La figura dell’autore diventa quasi il cattivo della storia, un gerarca che domina tutto con la sua lingua biforcuta. Ma è qui che risiede il genio di Rezza e Mastrella: non ti danno mai risposte preconfezionate. Ti lasciano con domande che continuano a risuonare molto tempo dopo che le luci si sono spente. Con Bahamuth, Antonio Rezza e Flavia Mastrella dimostrano ancora una volta che il teatro non è morto. È vivo, vibrante, strano, e soprattutto necessario. Questo spettacolo non ti dà risposte, ma ti riempie di domande, e in un mondo che sembra aver perso la voglia di interrogarsi, questo è già un atto rivoluzionario. Se esci dalla sala sentendoti un po’ confuso, un po’ frustrato, ma anche un po’ più vivo, allora forse hai capito il punto. E, se non l’hai capito, non preoccuparti: a volte il teatro serve proprio a ricordarti che non tutto deve essere chiaro per essere importante.
L’ultima rappresentazione della Forza del destino diretta da Riccardo Chailly con la regia di Leo Muscato il 2 gennaio ha chiuso simbolicamente un dicembre e un 2024 densi di risultati per il Teatro. La forza del destino e Lo schiaccianoci, titoli inaugurali delle Stagioni d’Opera e di Balletto, hanno registrato il tutto esaurito su tutte le repliche, portando la percentuale di riempimento del mese alla percentuale record del 96% per una media di incasso di € 250.000 a sera (esclusa naturalmente la Prima del 7 dicembre). Nel complesso la percentuale di riempimento del 2024 è stata del 90%. La fine dell’anno ha segnato anche la chiusura della campagna per molte tipologie di abbonamenti, con risultati estremamente positivi: 11.000 abbonati, oltre 8 milioni di incasso e una crescita intorno al 5% rispetto alla Stagione precedente.
GLI SPETTACOLI
Dal 3 al 12 gennaio.
Lo schiaccianoci nella coreografia di Rudolf Nureyev, titolo di apertura della Stagione di Balletto 2024/2025, torna per 9 rappresentazioni tutte esaurite dirette da Valery Ovsianikov. Tutti i cast sul sito.
13, 17 e 20 gennaio.
Lorenzo Viotti inaugura un anno di frequenti esecuzioni mahleriane per la Filarmonica dirigendo la Sinfonia n. 6 per il secondo appuntamento della Stagione Sinfonica del Teatro.
13 gennaio, ore 16:
per il ciclo Invito alla Scala, Mario Acampa e l’Ensemble Barocco dell’Orchestra propongono insieme alla storica dell’arte Maria Cristina Terzaghi un percorso tra arte e musica dedicato all’anno 1685, in cui nacquero Johann Sebastian Bach, Domenico Scarlatti e Georg Friedrich Händel.
Dal 16 gennaio al 7 febbraio.
Falstaff di Giuseppe Verdi torna alla Scala nello storico allestimento creato da Giorgio Strehler ed Ezio Frigerio, ripreso da Marina Bianchi. Sul podio Daniele Gatti, che torna a dirigere un’opera alla Scala dopo otto anni. Protagonista è Ambrogio Maestri, il Falstaff per eccellenza di questi anni, affiancato tra gli altri da Rosa Feola come Alice, Luca Micheletti come Ford, Juan Francisco Gatell come Fenton e Marianna Pizzolato come Quickly.
19 gennaio, ore 19.
Anteprima scaligera per The Opera!, il film di Davide Livermore e Gep Cucco ispirato al mito di Orfeo. Insieme ai cantanti Valentino Buzza, Mariam Battistelli ed Erwin Schrott recitano celebri attori come Fanny Ardant, Vincent Cassel, Caterina Murino, Rossy de Palma e Angela Finocchiaro. L’orchestra è diretta da Plácido Domingo e Fabio Biondi, i costumi sono di Dolce & Gabbana e di Mariana Fracasso, le scene sono realizzate da GIO’ FORMA e Cristiana Picco.
26 gennaio.
Nikolaj Luganskij apre il ciclo “Grandi Pianisti alla Scala” 2024/2025 con un programma che comprende nella prima parte i Lieder ohne Worte di Mendelssohn e la Sonata n. 17 di Ludwig van Beethoven, e nella seconda, dedicata a Richard Wagner, Quattro scene dalla Götterdämmerung trascritte dallo stesso Luganskij e Isoldes Liebestod nella trascrizione di Liszt.
27 gennaio. Riccardo Chailly inaugura la nuova Stagione della Filarmonica con la Settima Sinfonia, nuova tappa del percorso pluriennale del Direttore Musicale nell’universo sinfonico di Gustav Mahler. Chailly ritroverà il compositore nel prossimo ottobre dirigendo i Rückert-Lieder nella Stagione sinfonica.
GLI INCONTRI
8 gennaio ore 18.
Per il tradizionale ciclo “Prima delle Prime”, Piero Mioli presenta la produzione di Falstaff con un incontro nel Ridotto dei Palchi dal titolo “Elogio della leggerezza”.
15 gennaio ore 18.
La rassegna di presentazioni editoriali “Letture e note al Museo”, realizzata dal Museo Teatrale alla Scala e curata da Armando Torno, presenta nella Sala dell’Esedra un incontro sul volume “Nei palchi e nelle sedie”, a cura di Carlida Steffan e Luca Zoppelli, che indaga il teatro musicale nella società italiana dell’Ottocento.
17 gennaio ore 18.
Nell’ambito della serie di incontri “Dischi e tasti”, a cura di Luca Ciammarughi, che si propone di valorizzare alcune delle più rilevanti novità discografiche, per il mese di gennaio la Sala Esedra del Museo Teatrale alla Scala ospita un appuntamento dedicato alle Sonate di Saint-Saëns con Piercarlo Sacco al violino e Luca Schieppati al pianoforte.
28 gennaio ore 18.
“La tragedia dei Wälsidi, atto primo” è il titolo dell’incontro tenuto da Elisabetta Fava nel Ridotto dei Palchi, con momenti al pianoforte, per accompagnare il pubblico verso Die Walküre, secondo titolo della Tetralogia di Richard Wagner.
LA RIVISTA
Novità alla Rivista, la cui direzione passerà nei prossimi mesi dal Direttore della Comunicazione Paolo Besana al critico e Dramaturgo Mattia Palma. Il numero di gennaio è in gran parte dedicato a Falstaff. Dopo la consueta introduzione all’opera di Raffaele Mellace, Elisabetta Fava raccoglie le parole di Daniele Gatti, mentre Luca Baccolini intervista i due grandi baritoni che hanno incarnato il protagonista negli ultimi decenni: Juan Pons e Ambrogio Maestri. Fabiana Giacomotti, al suo primo pezzo per la Rivista, si è invece fatta raccontare da Leila Fteita il lavoro di ricostruzione della scenografia originale, mentre Luciana Ruggeri spiega il processo di ripresa di uno spettacolo attraverso le carte del servizio Regia. Altri contributi su Falstaff sono offerti dal professor Gabriele Dotto che presenta frammenti del carteggio tra Verdi e Ricordi conservato presso l’Archivio Ricordi; da Lisa La Pietra che analizza la voce di Ambrogio Maestri nel monologo dell’onore; da Daniele Cassandro, che inaugura la nuova rubrica Crossover raccontando gli echi del personaggio tra cinema e generi musicali diversi. Carla Vigevani raccoglie le impressioni di due nuovi protagonisti dello Schiaccianoci, Camilla Cerulli e Marco Agostino. Gerardo Capaldo e Francesco Muraca, percussionisti dell’Orchestra, hanno raccontato a Luca Ciammarughi il ruolo delle percussioni nella Sesta di Mahler.
Milano, Teatro alla Scala, Stagione 2024/25
“LO SCHIACCIANOCI”
Balletto in due atti
Coreografia e Regia Rudolf Nureyev
Musica Pëtr Il’ič Čajkovskij
Il dottor Stahlbaum MASSIMO GARON
La signora Stahlbaum CHIARA FIANDRA
Il signor Drosselmeyer/ Il Principe NAVRIN TURNBULL
Clara CAMILLA CERULLI
Fritz EUGENIO LEPERA
Luisa LINDA GIUBELLI
La nonna STEFANIA BALLONE
Il nonno MARCO MESSINA
Lo schiaccianoci ALESSANDRO PAOLONI
Il re Topo EDOARDO CAPORALETTI
Corpo di Ballo e Orchestra del Teatro alla Scala
Coro di Voci Bianche e allievi della Scuola di Ballo dell’Accademia Teatro alla Scala
Direttore Valery Ovsyanikov
Scene e Costumi Nicholas Geōrgiadīs
Luci Andrea Giretti
Milano, 5 gennaio 2025
Siamo tornati al Teatro alla Scala per una recita pomeridiana dello Schiaccianoci. Aggiungiamo, a quanto già detto (qui la recensione del 20 dicembre), che ci stupiamo di come oggi l’associazione più spontanea, quando si nomina lo Schiaccianoci, sia al balletto, quando invece, nel 1957, Eugenio Montale, sulle pagine del Corriere, riferisce che “è più noto nella suite che Ciaikovski ne ricavò che nel complesso originale”. Sorprende anche che, all’epoca, questo balletto mancasse dal palco del Teatro da quasi vent’anni. Il ritorno fu sensazionale: in quella sera di Capodanno del 1957, Montale assisteva a uno Schiaccianoci con protagonisti del passo a due finale Margot Fonteyn e Michael Somes. Troviamo, infine, conferma anche dell’immortalità della musica, ancora oggi utilizzata, remixata, a volte possiamo pure dire violentata, sempre fra le parole dello stesso poeta, uno dei più importanti del novecento (dalla solida formazione musicale): nonostante l’argomento fiabesco, troviamo nella sua musica quell’atmosfera da salottino da conversazione – nell’Ottocecento comunissimi, frequentatissimi e proliferanti di talenti artistici e non – in cui abbiamo “il senso del samovar che borbotta e della vita che scorre non senza passioni”, facendone un’opera classica che meglio di altre può “indicare ai nostri nepoti quale elegante schiuma portasse in cresta un’epoca che oggi riteniamo tranquilla (la belle époque) solo perché ne siamo ormai lontani, ma che conteneva già tutte le premesse del disordine che noi tutti viviamo”. Tornando allo spettacolo pomeridiano del 5 gennaio 2025, abbiamo assistito al debutto di una coppia di giovani ballerini solisti. Camilla Cerulli, al suo esordio assoluto nel ruolo di Clara, ha avuto la solidezza tecnica per affrontare tutta la coreografia con successo. Molto buono è stato anche il lavoro espressivo, compatibilmente con la minore esperienza rispetto ad altri ballerini più rodati. Simili considerazioni possiamo fare per Navrin Turnbull, che aveva debuttato lo scorso anno, ma non avevamo avuto occasione di vederlo. Lo troviamo però, in questo ruolo tanto sfidante, molto rafforzato: ci aspettiamo quindi un percorso sempre in crescendo, perché, se si è raggiunto l’obiettivo di poter ballare positivamente questa coreografia – azzarderemmo a dire una delle più folli dell’estro coreografico di Nureyev – di conseguenza ci auguriamo altri successi. Anche il resto del cast ha avuto meritati applausi, ma ci limitiamo a segnalare il maggior calore espresso dal pubblico per la coppia solista della danza araba con Maria Celeste Losa e Gabriele Corrado, nella quale soprattutto Losa ha tutte le caratteristiche tecniche e fisiche per riuscire con successo in questo ruolo. Non indugiamo oltre, ripetendo quanto già sottolineato, ma confermiamo anche l’impressione positiva sulla conduzione del maestro Valery Ovsyanikov. Questo cast tornerà in scena il 9 gennaio, poi le altre repliche saranno il 10, 11 e 12 gennaio. Foto Brescia & Amisano