Roma, Teatro India
RICCARDO III
22 ottobre – 10 novembre 2024
di William Shakespeare
progetto di Luca Ariano e Pietro Faiella
regia Luca Ariano
con Pietro Faiella, Roberto Baldassari, Gilda Deianira Ciao, Romina Delmonte, Luca Di Capua, Lucia Fiocco, Mirko Lorusso, Liliana Massari, Alessandro Moser
Il Riccardo III di Luca Ariano è una scatola fluorescente, un viaggio a perdifiato nella mente del Duca di Gloucester, un’esperienza immersiva, sfolgorante di luci e strappi visivi. Nella presente riduzione del testo shakespeariano, il Duca di Gloucester, poi Riccardo III, interpretato da Pietro Faiella, è presentato nella sua ascesa al Potere come un Demiurgo, in grado di modellare, manipolare e modificare i luoghi, la realtà e le persone: senza abbandonare mai lo spazio scenico, egli lo agisce, lo colora di tinte lisergiche e lo trasforma in trappole caleidoscopiche. Attorno a lui errano, vagando e sbagliando, altri sedici personaggi, distribuiti tra otto attrici e attori secondo schemi tematici funzionali, avviluppati nella rete mortifera del Duca, fatta di inganni e lusinghe, tranelli e mistificazioni. Assenti i detentori del potere reale, orpelli di una architettura del Potere che Riccardo di Gloucester, invece, incarna a pieno titolo, facendo della medesima corruzione fisica e morale la propria forza propulsoria. Qui si apre il divario irreconciliabile tra emozione e freddezza. Laddove i personaggi maschili sulla scena mirano ad approfittare di tale abbrivio, le donne, pur impotenti di fronte alla deriva degli eventi, cercano con ogni manovra di salvaguardare i propri cari. Ma quando Riccardo III, indossa la corona regale nel vuoto scenico che ottunde le grida di vendetta e giustizia dei tanti sacrificati, l’uomo-Re senza accoliti, il Demiurgo senza fedeli, l’Affabulatore senza auditorio, splende in dorata solitudine, inconsapevole del baratro che lo attende, nel quale nessun trucco ha più effetto, nessuna illusione è più efficace, nessuna minaccia ha più forza.
Roma, Sala Umberto
BUONASERA A TUTTI
al 24 Ottobre al 27 Ottobre 2024
al pianoforte il M° Luca Urciuolo
produzione Tradizione e turismo – centro di produzione teatrale | Teatro Sannazaro | Ag Spettacoli
Regia di Francesco Esposito
Il recital “Buonasera a tutti” già dal titolo lascia intuire cosa dovrà aspettarsi il pubblico: un momento di intimità tra artista e spettatori, oltrepassando la cosiddetta quarta parete in un continuo dialogo con la platea. Il modo di fare teatro di Peppe Barra è stato più volte definito “le mille e una resurrezione dell’animo partenopeo”. Attraverso la sua maschera sarcastica e ai tanti registri vocali – dai più gravi ai più acuti -, unisce da sempre gli elementi colti e popolari della sua città, mescolando nei suoi spettacoli, con facilità, la tradizione e l’innovazione. Un viaggio nella vita dell’uomo e dell’artista: i suoi ricordi di infanzia e adolescenza nella Procida e nella Napoli degli anni ’50, la sua memoria di giovanissimo attore con Zietta Liù, fino al successo della Nuova Compagnia di Canto Popolare e agli anni di teatro insieme alla indimenticata Concetta Barra, madre e compagna di scena. Una passeggiata nei suoi oltre 60 anni di carriera, tra teatro e canzone, toccando la musica barocca e la tradizione popolare, il mondo magico di Basile, grandi autori come Petito e Viviani, il varietà, il cabaret, fino a giungere ai cantautori contemporanei. Barra sarà unico mattatore in scena – insieme al maestro Luca Urciuolo che lo accompagnerà al pianoforte – per divertire ed emozionare, con follia e poesia. Senza mai interrompere il gioco con il pubblico, come un felice incontro tra bambini che hanno soltanto voglia di stare insieme e divertirsi …con gioia ed ironia. Francesco Esposito
Roma, Teatro Ambra Jovinelli
SANGHENAPULE
Vita straordinaria di San Gennaro
testo e drammaturgia Roberto Saviano e Mimmo Borrelli
regia Mimmo Borrelli
con Roberto Saviano e Mimmo Borrelli
musiche, esecuzione ed elettronica Gianluca Catuogno e Antonio Della Ragione
scene Luigi Ferrigno
costumi Enzo Pirozzi
luci Salvatore Palladino
sound design Alessio Foglia
produzione Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellini
In collaborazione con Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa
Lo spettacolo ha debuttato al Piccolo Teatro di Milano il 5 aprile 2016 presso il Piccolo Teatro di Milano / Teatro Grassi.
Costumi realizzati dalla Sartoria del Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa
In uno spettacolo che intreccia il racconto alla poesia, esaltando la lingua napoletana in tutta la sua barocca bellezza, Mimmo Borrelli e Roberto Saviano, puntano al cuore di Napoli, città di sangue e di lava incandescente, esplorandone il mistero e la contraddizione. Attore e narratore percorrono alcune tappe della storia napoletana in una continua osmosi tra celeste e sotterraneo. È il sangue il filo conduttore di uno spettacolo di parole, luci e suoni, con una splendida colonna sonora originale eseguita dal vivo. È il sangue che si scioglie, rinnovando ogni anno il patto tra il santo e la sua gente; è il sangue dei primi martiri cristiani, ma anche quello dei “martiri laici” della Repubblica partenopea, che a fine Settecento tentò di opporre l’ideale democratico all’oppressione borbonica; è l’emorragia dell’emigrazione nei primi decenni del Novecento, quando migliaia e migliaia di italiani varcarono l’oceano in cerca di un futuro migliore; è il sangue versato sotto le bombe della Seconda Guerra mondiale; è, infine, quello degli agguati di camorra. In uno spettacolo che intreccia la narrazione alla poesia, esaltando la lingua napoletana in tutta la sua barocca bellezza, Mimmo Borrelli e Roberto Saviano, puntano al cuore di Napoli, città di sangue e di lava incandescente, raccontandone il mistero e la contraddizione.
Atene, Museo dell’Acropoli
CIVILTA’ ANTICHE DELLA BASILICATA. TESORI RITROVATI. XI-VI SEC.A.C.
Nel cuore di Atene, nella splendida cornice del Museo dell’Acropoli, una mostra dal sapore antico racconta la storia della Basilicata e delle sue civiltà perdute. “Civiltà antiche della Basilicata. Tesori ritrovati. XI-VI sec. a.C.” è l’evento culturale che getta luce su una terra di confine, simbolo dell’incontro e della fusione di culture differenti. Aperta dal 18 ottobre 2024 fino al 26 gennaio 2025, l’esposizione permette al pubblico di scoprire tesori archeologici provenienti dalla Basilicata, regione situata nel cuore dell’antica Enotria, che per secoli ha rappresentato un crocevia tra il mondo italico e quello ellenico. La mostra, curata da Massimo Osanna e Annamaria Mauro, si sviluppa in tre sezioni principali e offre al visitatore un vero e proprio viaggio nel tempo. Le testimonianze esposte, mai presentate al grande pubblico prima d’ora, provengono dai musei più importanti della Basilicata: il Museo Nazionale della Siritide, il Museo Archeologico Nazionale di Metaponto e il Museo Archeologico Nazionale “Domenico Ridola” di Matera. Questi reperti, finora conservati nei depositi e restaurati appositamente per l’evento, raccontano la storia di comunità che tra la fine dell’Età del Bronzo e il VI secolo a.C. abitarono un territorio ricco e culturalmente dinamico. Il percorso espositivo è un’occasione per approfondire la conoscenza delle popolazioni italiche, come i Choni e gli Enotri, che occupavano il territorio della Basilicata tra il IX e il V secolo a.C., nonché per esplorare il ruolo dei contatti con il mondo greco. In mostra si possono ammirare oggetti di pregio, tra cui monili in bronzo e ambra, che testimoniano gli intensi scambi commerciali e culturali con le aree trans-adriatica, tirrenica ed egea. Questi artefatti non solo narrano di una terra ricca di risorse, ma anche di una società in cui la commistione culturale è stata fondamentale per la crescita e lo sviluppo della comunità locale. La storia della Basilicata antica è un racconto di interazione e coesistenza tra culture diverse, un territorio che ha visto il succedersi di genti italiche, coloni greci e, più tardi, l’influenza dei Lucani. La mostra cerca di rendere visibile questa complessità, attraverso un’esposizione che mette in luce non solo i manufatti materiali, ma anche i legami invisibili che univano le diverse comunità. Tra i pezzi di maggiore rilievo si trovano le ceramiche dipinte, tipiche dell’arte greca, che testimoniano l’assimilazione di tecniche e stili provenienti dal mondo ellenico. Non mancano inoltre armi, utensili e ornamenti che raccontano la vita quotidiana e le credenze delle popolazioni locali. Il valore simbolico di questa esposizione è stato sottolineato dal Direttore generale del Museo dell’Acropoli, Nikolaos Chr. Stampolidis, il quale ha evidenziato il carattere poetico dei reperti in mostra, descrivendoli come “oggetti che raccontano storie di vite passate, di sogni e credenze che ancora oggi risuonano attraverso i secoli“. Questa idea è stata ripresa anche da Massimo Osanna, che ha definito la Basilicata un “paesaggio dell’intreccio“, un luogo in cui la storia ha visto il continuo intersecarsi di culture diverse, dal mondo italico ai Greci della Magna Grecia. Durante la cerimonia di inaugurazione sono intervenuti diversi rappresentanti del mondo culturale e diplomatico, tra cui Filippo La Rosa, Vice Direttore generale per la Diplomazia pubblica e culturale del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale italiano, il quale ha definito la mostra “un potente strumento di diplomazia culturale“, in grado di rafforzare i legami storici e culturali tra Italia e Grecia. L’Ambasciatore d’Italia in Grecia, Paolo Cuculi, ha invece sottolineato l’importanza di queste iniziative per mantenere vivo il dialogo interculturale nel Mediterraneo, una regione che è stata il crogiolo di molte delle più grandi civiltà della storia. Annamaria Mauro, Direttrice dei Musei Nazionali di Matera, ha parlato dell’importanza di far conoscere il patrimonio della Basilicata a un pubblico internazionale, evidenziando come la mostra rappresenti un’opportunità unica per scoprire un territorio spesso trascurato dalla grande narrativa storica, ma che ha avuto un ruolo fondamentale nello sviluppo delle dinamiche mediterranee. I reperti esposti, secondo Mauro, testimoniano la ricchezza delle relazioni interculturali che si sono sviluppate lungo le coste del Mar Ionio e nel cuore dell’entroterra lucano, un’area che ha vissuto fasi alterne di conflitto e collaborazione, ma sempre con un profondo senso di apertura verso l’altro. Il valore culturale dei reperti esposti è amplificato dalla loro straordinaria varietà: si va dalle armi e dagli strumenti utilizzati nelle attività quotidiane, fino agli oggetti di culto e agli ornamenti personali che testimoniano il ruolo centrale della religione e delle credenze spirituali nelle comunità antiche. Particolarmente interessante è la sezione dedicata ai corredi funerari, che forniscono preziose informazioni sulla vita e la morte degli abitanti della Basilicata antica. La mostra è stata resa possibile grazie alla collaborazione tra il Ministero per i Beni e le Attività Culturali italiano, la Direzione Regionale Musei Nazionali della Basilicata, il Museo Nazionale di Matera, il Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale e il sostegno dell’Ambasciata d’Italia in Grecia e dell’Istituto Italiano di Cultura di Atene. Quest’ultimo, per tutta la durata dell’esposizione, ospiterà anche una selezione di venti reperti archeologici provenienti dalla Basilicata, offrendo così un’ulteriore prospettiva su una terra ricca di storia e di fascino. Questa cooperazione internazionale rappresenta un esempio di come la cultura possa agire da ponte tra nazioni, promuovendo la conoscenza reciproca e il rispetto tra popoli diversi. L’ingresso alla mostra è gratuito, offrendo a tutti l’opportunità di immergersi in un racconto affascinante di uomini e donne che hanno popolato queste terre migliaia di anni fa, in un contesto di profonda commistione culturale. Inoltre, il catalogo della mostra, disponibile in greco moderno, italiano e inglese, arricchisce l’esperienza con approfondimenti e analisi sui reperti esposti. Le visite guidate, a partire dal 22 ottobre, permetteranno ai visitatori di esplorare a fondo i tesori archeologici esposti, rendendo vivo il passato e le storie delle civiltà che hanno forgiato la storia del Mediterraneo. Un’occasione imperdibile per riscoprire la storia attraverso gli oggetti che ne sono stati testimoni silenziosi, e per comprendere come il dialogo tra le culture del passato possa ancora oggi insegnarci molto sul nostro presente.@photocreditMIC
Genova, Teatro Ivo Chiesa & Opera Carlo Felice
“ IL GIRO DI VITE” / “THE TURN OF THE SCREW”
Dal racconto di Henry James, traduzione e adattamento di Carlo Sciaccaluga.
Istitutrice LINDA GENNARI
Mrs. Grose GAIA APREA
Peter Quint ALEPH VIOLA
Miss. Jessel VIRGINIA CAMPOLUCCI
Miles LUIGI BIGNONE
Flora LUDOVICA IANNETTI
Musiche Giua
Nuova produzione del Teatro Nazionale di Genova in collaborazione con la Fondazione Teatro Carlo Felice di Genova.
Opera in un Prologo e due atti su libretto di Myfanwy Piper da Henry James.
Musica di Benjamin Britten
Quint VALENTINO BUZZA
The Governess KAREN GARDEAZABAL
Miles OLIVER BARLOW
Flora LUCY BARLOW
Mrs.Grose POLLY LEECH
Miss Jessel MARIANNA MAPPA
Orchestra del Teatro Carlo Felice di Genova
Direttore Riccardo Minasi
Regia Davide Livermore
Scene Manuel Zuriaga
Costumi Mariana Fracasso
Luci Nadia Garcia, Antonio Castro
Nuovi produzioni del Teatro Nazionale di Genova e della Fondazione Teatro Carlo Felice di Genova dalla produzione del Palau de les Arts Reina Sofia di Valencia.
Genova 13 ottobre 2024.
Il racconto gotico di Henry James, con la regia comune di Davide Livermore, è riuscito, in una serata dalla durata wagneriana, ad accumulare, nella sede del Teatro Ivo Chiesa, le inaugurazioni della stagione 2024 – 2025 delle due più importanti istituzioni culturali della città: il Teatro Nazionale e il Carlo Felice. Il testo originario di James naviga nell’indistinto, Sciaccaluga lo costringe a un eccessivo naturalismo. Nella voce e nell’espressione dell’Istitutrice, che ne è l’indubbia protagonista, tranne il non osare a dar nome ai fattacci accaduti a Bly, tutto è reale e tangibile ed esplicito. I fantasmi, in James, non parlano e si mostrano solo furtivamente, qui, anche loro hanno voce e incrementano la percezione di un racconto assai concreto e fattuale. Tutti possiamo ben indovinare quali siano gli “atti impuri” che troppo ossessionano le due donne di casa e lasciano assolutamente indifferente, ma lui è un uomo di mondo, il giovane tutore, solitario nella sua casa di Londra. I bravissimi attori sono stati apprezzati e applauditi dal foltissimo pubblico intervenuto al Teatro Ivo Chiesa. La regia di Davide Livermore è la chiave del successo della recita e il fattore unificante con l’opera di Britten pur così divaricata rispetto alla prosa d’avvio. L’esecuzione, in un atto unico di quasi due ore, del Turn of the screw, ha goduto dell’eccentrica ed eccellente interpretazione dal Maestro Riccardo Minasi. L’opera inizia, forse per compiacere al protagonismo di Peter Pears, prim’attore e compagno dell’autore, con un evanescente e inutile Prologo, inserito in un secondo tempo a composizione ormai compiuta. Segue il tema, una paginetta cardine, in cui vengono sciorinate, in sequenza ben calibrata, le dodici note della scala cromatica, che porterebbero a una composizione dodecafonica dall’inevitabile atmosfera espressionista. Ma ciò non avviene: temi popolari, canzoncine infantili, Purcell e Dowland, onnipresenti in Britten, i timbri sfumati delle percussioni orientali e le ultraterrene lamine della celesta di Antonella Poli, ci portano a un inedito Britten simbolista, post-Debussy. Anche le voci vengono calibrate da Minasi sul percorso dell’ “inchiostro sbiadito”, citato dal prologo, che le fa galleggiare in un indistinto ma comprensibile fluttuare di timbri che mescolano memoria, incubo, vivacità e angoscia. Ci convinciamo che Karen Gardeazabal, l’Istitutrice, per accordarsi alla temperie orchestrale e alle volontà di Minasi, faccia impallidire ad arte la sua voce. Siamo pure indotti a sospettarla di eccessiva debolezza dello strumento, quando all’improvviso, in un finale formidabilmente potente, ci sorprende con una forza inattesa. I due fanciulli Miles e Flora, rispettivamente Oliver e Lucy Barlow, recitano da provetti piccoli attori e rendono così reali le loro figure attraverso infantili tiritere che la sola maestria di Britten fa premonitrici e credibili. Polly Leech, Mrs. Grose, l’anziana governante, l’unica con i piedi per terra, che ben sa che nessun peso è da darsi né agli amorazzi ancillari tra domestici né agli “atti impuri” dei minorenni, canta e recita con una sorvegliatissima naturalezza che non contrasta l’orchestra, tenuta da Minasi sul filo di rasoio del “fairy tale”. Marianna Mappa, Miss Jessel, è una presenza pallida, qui, appartata, recita magnificamente la parte di amante frustrata e insoddisfatta. Quint, il quasi desnudo Valentino Buzza, cantante con recitativi assai efficaci, conferma e valorizza l’emarginazione che il suo personaggio subisce in questa produzione. I melismi incantatori sul nome “Miles”, perfettamente eseguiti, si accordano magnificamente con i legni che li sottendono. I fatti sono comunque assolutamente secondari, come i personaggi cantanti; l’atmosfera è predominante ed è creata dai timbri cangianti dal fantastico supporto strumentale fornito da una ventina di elementi dell’Orchestra del Teatro Carlo Felice. Non si poteva trovare una scenografia più adatta alle due piéces di quella, grigia claustrofobica, ossessivamente invasa da rincorrenti decori floreali, creata da Manuel Zuriaga. Le luci di Nadia Garcia e Antonio Castro generano poi ombre inquietanti che si prendono la scena. I costumi di Mariana Fracasso completano una parte visiva di assoluta distinzione. A Davide Livermore, oltre all’eccellente livello registico, vorremmo riconoscere un coup de theatre e uno humor assolutamente sopra le righe: nel finale Miles urla a Peter Quint, che alla creazione dell’opera alla Fenice il 18 settembre 1954, era Peter Pears, “Peter Quint, you devil!” per poi piombare fulminato al suolo. Qui non muore ma lo si rivede placidamente addormentato sotto un piumino, in un letto appeso alla parete di fondo: forse fu tutto un poetico sfogo di ripetuti battibecchi famigliari, testimoniati peraltro dai molti amici che frequentavano la coppia Britten-Pears. Notevole l’afflusso di pubblico, il Teatro Ivo Chiesa, dalla capienza di molto inferiore all’enorme Carlo Felice, era stracolmo e non ha mostrato defezioni neppure nella pausa di passaggio recita-canto. Applausi calorosi e successo indiscutibile per un’inaugurazione di stagione temeraria e coraggiosa.
Le Cantate profane – 3
Ode funebre per la morte della consorte di Augusto il Forte – Cristiana Eberhardine, regina di Polonia e principessa elettiva di SassoniaBWV 198 Ode Funebre in due parti su testo Johann Christoph Gottsched (1700-1766) per la morte di Christiane Eberhardine regina di Polonia ed elettrice di Sassonia, moglie di Augsuto il Forte. Prima esecuzione: Lipsia, 17 ottobre 1727.
Pur essendo annoverata tra le composizioni cantate da chiesa, questa “Ode funebre” è più propriamente classificata come una cantata profana, poiché non fu scritta per nessuna delle regolari funzioni religiose ma per il servizio di commemorazione di Christiane Eberhardine, regina di Polonia ed elettrice di Sassonia e che si tenne presso la chiesa universitaria di Lipsia, una collocazione che portò anche a una dispute di demarcazione di Bach con Johann Gottlieb Görner, direttore della musica dell’Università. Bach ne uscì vincitore e così si arrivò alla creazione di questa “Trauerode”, una composizione ammantata da una generale atmosfera di composta, sobria visione del lutto espressivamente assai vario, già a partire del Coro iniziale (Nr.1) che non ci immerge in una dimensione cupa, ma con un ritmo marcato, quasi di danza, introduce la parte vocale che invoca la defunta a guardare i fedeli che “fiotti di lacrime” circondano il suo monumento funebre. Il primo recitativo (Nr.2) ha uno stretto legame con la bellissima e dolorosa aria per soprano solista e archi (Nr.3). Il recitativo successivo (Nr.4) parla del clangore delle campane mentre tutti gli strumenti suonano in staccato ne imitano il suono! Quanto mai interessante l’organico: squillanti flauti traversi e oboe d’amore sopra una viola da gamba, liuto, archi e continuo e l’aria (Nr.5) è una lenta e accorata sonata in trio con viola da gamba e obbligato. La linea di canto è meravigliosamente lirica. Segue un recitativo lirico per tenore solista (Nr.6), oboe d’amore e continuo. La prima parte si chiude con una cupa fuga corale (Nr.7) a piena orchestra. La seconda parte si apre con un’aria angosciosa per tenore solista (Nr.8), flauto traverso obbligato, oboe d’amore, viola da gamba, archi, liuto e violoncello continuo. Segue un movimento in tre parti per basso solista e continuo: un recitativo (Nr.9)risoluto, un adagio più scorrevole e un arioso struggente accompagnato da coppie di flauti traversi e oboi. La cantata si conclude con una danza lenta, maestosa e profondamente dolorosa in 6/8 per coro e tutta l’orchestra (Nr.10). Si può affermare che lo stile della musica di questa partitura si affianchi alle grandi Passioni. Non a caso Bach adattò in seguito alcune musiche di questa cantata per la sua Passione di San Marco (perduta ma spesso ricostruita).
Parte prima
Nr.1 – Coro
Lascia, Principessa, che discenda ancora un raggio
Dalla volta stellata di Gerusalemme
E guarda con quanti fiotti di lacrime
Noi circondiamo il tuo monumento.
Nr.2 – Recitativo (Soprano)
La tua Sassonia, la tua sgomenta Meissen,
Stanno immobili davanti alla tua tomba reale;
Gli occhi lacrimano, la lingua grida:
Il mio dolore è indescrivibile!
Qui piangono August, il principe e il paese,
La nobiltà geme, il cittadino porta il lutto,
Quanto il popolo ti ha compianto
Non appena ha appreso del tuo destino!
Nr.3 – Aria (Soprano)
Tacete, tacete, corde soavi!
Non vi è suono che possa esprimere
La tristezza della nazione
Al cospetto della morte – parola dolorosa!
Della sua amata madre.
Nr. 4 – Recitativo (Contralto)
Il suono tremolante delle campane
Desti la paura nelle nostre anime afflitte
Con il suo bronzo risonante
E ci penetri nel midollo e nel sangue.
Oh, se solo potesse questo suono angoscioso
Che rimbomba ogni giorno nelle nostre orecchie,
Portare testimonianza della nostra pena
All’intera Europa!
Nr.5 – Aria (Contalto)
Con quale serenità è morta la nostra eroina!
Come ha lottato coraggiosamente il suo spirito,
Quando ha arrestato il braccio della morte
Prima che questi conquistasse il suo petto.
Nr.6 – Recitativo (Tenore)
La sua vita ha mostrato l’arte del morire
Come una pratica costante;
Non le era dunque possibile
Di impallidire innanzi alla morte.
Ah, beato il grande spirito di colui
Che si innalza al di sopra della natura,
Che davanti alla tomba e alla bara non trema,
Quando il suo Creatore lo richiama a sé.
Nr.7 – Coro
In te, modello di grande donna,
In te, sublime regina,
In te, custode della fede,
Abbiamo contemplato questa grandezza d’animo.
Parte seconda
Nr.8 – Aria (Tenore)
La dimora eterna di zaffìro
Distoglie, principessa, il tuo sguardo sereno
Dalla nostra mediocrità
Ed estingue la corrotta immagine del mondo.
La luce brillante di cento soli,
Che fa del nostro giorno una mezzanotte
E trasforma il nostro sole in oscurità,
Ha circondato il tuo volto trasfigurato.
Nr.9 – Recitativo, Arioso e recitativo (Basso)
Che meraviglia è questa? Tu lo meriti,
Tu, modello di tutte le regine!
Tu hai meritato tutti gli ornamenti
che adesso trasfigurano il tuo viso.
Porta quindi, davanti al trono dell’Agnello,
In luogo della vanità della porpora
Una veste di innocenza pura come perla
E irridi la corona abbandonata.
Fino alle rive della Vistola
E a dove scorrono il Dniestr e la Warta,
Fino alle foci dell’Elba e della Mulde
Le città e le campagne ti celebrano.
La tua Torgau si veste di lutto,
La tua Pretzsch è senza forze, prostrata e immobile;
poiché avendoti perduta,
Ha perduto la delizia dei suoi occhi.
Nr.10 – Coro
No, principessa, tu non muori,
Sappiamo ciò che significhi per noi
I posteri non ti dimenticheranno,
Finchè questo mondo non crollerà.
Poeti, scrivete! Noi vogliamo leggere:
Lei è stata incarnazione delle virtù,
La gioia ed il vanto dei suoi sudditi,
La gloria di tutte le regine.
Roma, Teatro Parioli Maurizio Costanzo
CONVERSAZIONI DOPO UN FUNERALE
di Yasmina Reza
con Simone Guarany, Andrea Ottavi, Andrea Venditti, Francesca Antonucci, Valeria Zazzaretta, Lucia Rossi
regia Filippo Gentile
Roma, 16 Ottobre 2024
Il Teatro Parioli ha alzato il sipario su “Conversazioni dopo un funerale” di Yasmina Reza, ma ciò che avrebbe potuto rappresentare un viaggio emotivo intenso e profondamente introspettivo si è rivelato un esperimento scenico deludente, privo di quella necessaria incisività. La produzione non riesce a trasportare il pubblico nell’universo teso e vibrante che il testo richiederebbe, sostituendo l’atmosfera di profondità e sottigliezza con scelte approssimative e poco incisive. La trama dell’opera, imperniata sulle complesse dinamiche familiari nel giorno del funerale del patriarca, è intrisa di tensioni latenti e conflitti inespressi che, in potenza, potrebbero esplodere in un crescendo di rivelazioni e scontri emotivi. La casa di famiglia, con le sue stanze impregnate di ricordi e i corridoi che sembrano soffocare i protagonisti, diventa il teatro fisico e simbolico in cui vecchi rancori, gelosie e incomprensioni mai risolte si manifestano, trasformando il lutto in una resa dei conti inevitabile. Tuttavia, questa dimensione drammatica, carica di potenzialità narrative, viene tradita da una messa in scena priva di reale intensità. La regia di Filippo Gentile, che avrebbe dovuto essere sensibile e puntuale nel dare forma alla complessità del testo, si rivela inconsistente e priva di una visione organica. Gli attori sembrano abbandonati a loro stessi, privi di una direzione chiara che li guidi verso un’espressione autentica e stratificata delle emozioni dei loro personaggi. La recitazione, pertanto, risulta spesso piatta e monocorde, con gesti e sguardi meccanici e privi della profondità necessaria a veicolare il dramma interiore. La mancanza di un lavoro accurato sulla prossemica e sulla costruzione del gesto teatrale lascia i personaggi privi di quella tensione esistenziale che è il fulcro dell’opera di Reza. L’intensità recitativa, che avrebbe dovuto costituire il cuore pulsante dello spettacolo, non riesce a colpire nel segno. I protagonisti non incarnano in modo convincente i conflitti interiori che attraversano i loro personaggi; ogni gesto appare superficiale, privo di quella consapevolezza corporea che avrebbe dovuto tradurre in azione scenica le emozioni represse. Nel complesso, la recitazione manca di profondità emotiva e il conflitto tra rabbia e desiderio di affetto rimane inespresso, senza riuscire a coinvolgere empaticamente lo spettatore. Le interpretazioni , così, risultano prive di quella maturità e articolazione che ci si aspetterebbe da attori professionisti, lasciando un’impressione dilettantesca e di scarsa preparazione. L’ambientazione scenica, che avrebbe dovuto essere claustrofobica e capace di riflettere il tormento interiore dei personaggi, si presenta invece come un insieme di elementi scenografici poco coesi e privi di forza simbolica. La casa di famiglia, che nel testo di Reza è il contenitore di tensioni non dette e di memorie soffocate, appare anonima e incapace di sostenere la drammaticità della situazione. La scenografia non riesce a trasformarsi in un elemento vivo e pulsante della rappresentazione, e manca quella dinamica tra spazio scenico e azione drammatica che sarebbe stata fondamentale per rendere il contesto parte integrante del racconto.L’illuminotecnica, che avrebbe dovuto creare un ambiente intimo e carico di significati simbolici, appare invece provvisoria e inadeguata, incapace di sostenere l’evoluzione della narrazione. La gestione delle luci manca di coerenza e di quella capacità di modulare la tensione scenica, che sarebbe stata indispensabile per accompagnare lo spettatore attraverso le sfumature delle relazioni familiari. Questo limite nella regia tecnica incide inevitabilmente sull’impatto complessivo della rappresentazione, privando lo spettatore di quella sensazione di immersione che avrebbe potuto rendere l’esperienza teatrale profonda e coinvolgente. “Conversazioni dopo un funerale” al Teatro Parioli si rivela un’opera che non riesce a sviluppare appieno il suo potenziale, perdendo gran parte della forza emotiva e della profondità che il testo di Yasmina Reza porta in sé. L’assenza di una regia incisiva e visionaria, le interpretazioni approssimative e una scenografia poco evocativa rendono questa messa in scena un’occasione mancata. Nonostante l’intento dichiarato di affrontare temi complessi come il lutto, la solitudine e le relazioni logorate dal tempo, la produzione rimane superficiale, senza mai riuscire a toccare realmente l’animo dello spettatore. Il risultato è una rappresentazione che manca di quella tensione drammatica e di quella finezza emotiva , lasciando il pubblico con la sensazione di aver assistito a un’esperienza incompiuta e priva di vero pathos. Al termine dello spettacolo, il pubblico è rimasto in gran parte silenzioso e poco partecipe, in un’atmosfera di imbarazzo palpabile per un finale confuso e uno svolgimento che non è riuscito a coinvolgere o a comunicare con efficacia. Peccato.
Roma, Casa Museo Hendrik Christian Andersen
“SALVARTI”
Roma, 16 ottobre 2024
Il 16 ottobre 2024, la Casa Museo Hendrik Christian Andersen di Roma ha accolto l’anteprima della mostra “SalvArti. Dalle confische alle collezioni pubbliche”, un evento di grande significato simbolico e culturale. Questa esposizione, che sarà aperta fino al 21 novembre 2024, presenta una collezione di 25 opere d’arte contemporanea, tutte sequestrate e confiscate alla criminalità organizzata e ora restituite alla collettività. Non si tratta soltanto di un’esposizione artistica, ma di un progetto di valenza civile che intende riaffermare la centralità del patrimonio culturale quale strumento di promozione della legalità e della coscienza collettiva. All’inaugurazione erano presenti figure istituzionali di rilievo, tra cui il Sottosegretario di Stato alla Cultura, On. Gianmarco Mazzi, e il Sottosegretario all’Interno, On. Wanda Ferro, oltre al Direttore dell’Agenzia Nazionale per i Beni Sequestrati e Confiscati, Prefetto Maria Rosaria Laganà, e al Sindaco di Reggio Calabria, Giuseppe Falcomatà, affiancato dall’Assessore alla Cultura del Comune di Milano, Tommaso Sacchi. Durante i loro interventi, è emerso come la mostra SalvArti rappresenti il frutto di una collaborazione virtuosa tra diverse istituzioni, unite nello sforzo di restituire alla società un patrimonio artistico strappato alla criminalità. “La mostra SalvArti” – ha spiegato il Direttore generale Musei, Massimo Osanna – “rappresenta una prassi virtuosa, che va dalla valorizzazione del patrimonio culturale alla promozione della legalità, e si propone come un’opportunità di riflessione collettiva sui valori civici e sulla responsabilità sociale, soprattutto nei confronti delle giovani generazioni”. L’iniziativa non si ferma a Roma: dopo la tappa nella capitale, la mostra si sposterà al Palazzo Reale di Milano (2 dicembre 2024 – 26 gennaio 2025) e al Palazzo della Cultura di Reggio Calabria (8 febbraio – 27 aprile 2025). Il progetto più ampio, denominato “Arte per la cultura della legalità”, è stato organizzato dalla Direzione generale Musei del Ministero della Cultura in collaborazione con l’Agenzia Nazionale Beni Sequestrati e Confiscati, il Comune di Milano e la Città Metropolitana di Reggio Calabria, e vede il supporto del Ministero dell’Interno. Obiettivo principale è restituire alla collettività opere che per lungo tempo sono state invisibili, reinserendole in un contesto museale accessibile e sottolineando il ruolo determinante delle istituzioni coinvolte nel processo di recupero e verifica del loro valore artistico. Conclusa la tappa di Reggio Calabria, alcune delle opere confluiranno in istituti museali di prestigio come la Pinacoteca di Brera e Palazzo Citterio a Milano, la Galleria nazionale d’arte moderna e contemporanea a Roma, e il Museo del Novecento a Napoli. In particolare, una selezione delle opere restituite tornerà al Palazzo della Cultura “P. Crupi” di Reggio Calabria, un simbolo del riscatto culturale e civile in un territorio da sempre impegnato nella lotta contro la criminalità organizzata. La mostra offre al pubblico un articolato percorso nell’arte contemporanea, con opere di grafica, pittura, scultura, installazioni e fotografie, organizzate secondo criteri sia cronologici che tematici. Sono rappresentati movimenti come il gruppo “Novecento”, la Metafisica di Mario Sironi e Carlo Carrà, la Transavanguardia di Sandro Chia e la Nuova scuola Romana, fino a esperienze più sperimentali come il New Dada e l’arte murale di Keith Haring. Questa eterogeneità permette di cogliere la ricchezza dei linguaggi artistici che hanno attraversato la seconda metà del Novecento, toccando temi quali l’identità, la resistenza e la critica sociale. La visita a “SalvArti” è un viaggio che, oltre a coinvolgere gli occhi, interroga la coscienza. Le opere, ciascuna con una storia di recupero e riscatto, diventano simbolo di una riflessione più ampia sulla funzione dell’arte nella società: non mero ornamento, ma potente mezzo di denuncia e strumento di aggregazione civica. In questo senso, il progetto non è solo un’operazione culturale, ma un vero e proprio atto politico, che ribadisce il ruolo delle istituzioni e della cultura nella lotta contro la criminalità e nella costruzione di un futuro basato su valori di giustizia e partecipazione. Il significato più profondo di questa iniziativa risiede proprio nella restituzione alla collettività di ciò che è stato sottratto: non si tratta solo di opere d’arte, ma di pezzi di memoria e identità collettiva, che ora tornano a essere fruibili da tutti. In questo contesto, il linguaggio artistico assume una dimensione etica e politica, unendo passato e presente in un dialogo che coinvolge le istituzioni, gli artisti e il pubblico. “SalvArti” non è solo una mostra, ma un manifesto di resistenza culturale e di rinascita collettiva.
Milano, Teatro Menotti, Stagione 2024/25
MEDEA
di Euripide
Medea ROMINA MONDELLO
Giasone GIANLUIGI FOGACCI
Nutrice DEBORA ZUIN
Creonte PAOLO COSENZA
Coro CAMILLA BARBARITO, NICOLAS ERRICO, CLAUDIO PELLEGRINI
Regia Emilio Russo
Scenografia Dario Gessati
Musiche Andrea Salvadori
Costumi Pamela Aicardi
Produzione Tieffe Teatro
Milano, 12 ottobre 2024
La “Medea” di Emilio Russo, in scena al teatro Menotti di Milano, è uno spettacolo formalmente quasi ineccepibile: la scena, i costumi, i movimenti dei personaggi sono tutti tesi a una ponderata classicità, che trova un’efficace contraltare nei canti del Mediterraneo che sostituiscono gli stasimi del coro (suggestivamente interpretati da Camilla Barbarito e ben intessuti nel malioso progetto sonoro di Andrea Salvadori). C’è anche la ricerca di un patinato manierismo, con posizioni estremamente studiate, luci di taglio che accentuano le volumetrie, uso accademico della voce da parte di tutti gli interpreti, e questo non è di per sé un male, anzi: in un panorama a tratti stancamente postdrammatico, com’è la prosa meneghina, sorprende che un teatro di ricerca produca una “Medea” così demure, per usare un termine recentemente divenuto caro al popolo della rete; questo spettacolo è esattamente come dovrebbe essere e probabilmente come vorrebbe. Ma – doveva esserci un “ma” – questo classicismo, che abbiamo trovato perfettamente condivisibile per quanto riguarda gli aspetti visuali, si esaspera invece nella recitazione dei personaggi, specialmente in Romina Mondello: la sua è una Medea gelida, che snocciola un eloquio lentissimo e nel quale ogni parola è pesata, riflettuta; questo, contrariamente a quello che si può credere, è un errore, giacché se pesiamo e riflettiamo ogni parola il risultato che otteniamo è come se non ne pesassimo né riflettessimo alcuna; e infatti la Mondello cade più di una volta anche nella trappola di questo modus operandi, cioè la cantilena, nel suo caso una cadenza vagamente da hostess di volo, incapace di gridare, di arrabbiarsi, di alzare la voce per qualsivoglia motivo, e semmai che si rifugia nel mormorio, nel sussurro (tanto tutti gli interpreti sono microfonati). Accanto a lei Gianluigi Fogacci mostra una verve ben diversa, ma che spesso si trattiene, proprio per assecondare il registro della protagonista. Apprezzabile, invece, Debora Zuin, proprio grazie a una maggiore naturalezza del fraseggio, per quanto con un ruolo di lato (la Nutrice). Il risultato è che un testo che sarebbe dovuto durare un’ora (visti i larghi taglie effettuati sull’originale euripideo) dura più di due, lentamente dissanguando il pubblico. Questo è il vero rischio di una messa in scena tanto estetizzante: la noia, cui nessuno, dal critico più feroce al ragazzino portato per la prima volta a teatro, è immune. Questa “Medea” è visivamente splendida, ma piuttosto noiosa sul piano performativo, e, per di più, senza un’apparente ragione (giacché lo stesso spettacolo funzionerebbe sicuramente meglio cambiando unicamente il ritmo). Peccato, poiché più di una volta ci siamo professati strenui sostenitori delle messe in scena di teatro classico, ma queste devono fare i conti con una ricevibilità da parte del pubblico, che non significa snaturarne per forza la radice antica, ma nemmeno trattare questa materia con un’archeologica, per quanto commovente, riverenza. Foto Roberto De Biasio
la Stagione Lirica di Padova 2024 entra nel vivo del suo appassionante viaggio tra le emozioni più profonde dell’animo umano: la gioia, la speranza e il trionfo del bene sul male. Tra le tre opere iconiche che compongono questa stagione, brilla la struggente bellezza di Madama Butterfly di Giacomo Puccini, che andrà in scena venerdì 18 ottobre alle ore 20.45 e domenica 20 ottobre alle ore 16.00 al Teatro Verdi di Padova.
Personaggi e interpreti
Madama Butterfly (Cio-Cio-San) VITTORIA YEO (18/10); FRANCESCA DOTTO (20/10)
B.F. Pinkerton GIORGIO BERRUGI
Suzuki FRANCESCA DI SAURO
Sharpless JORGE NELSON MARTINEZ
Goro ROBERTO COVATTA
Lo zio Bonzo CRISTIAN SAITTA
Il Principe Yamadori WILLIAM CORRÒ
Kate Pinkerton ALEKSANDRA METELEVA
Il commissario imperiale FRANCESCO MILANESI
L’ufficiale del registro FRANCESCO TOSO
Coro Lirico Veneto
Maestro del Coro: MATTEO VALBUSA
ORCHESTRA DI PADOVA E DEL VENETO
Maestro Concertatore e Direttore d’orchestra: FRANCESCO ROSA
Regia, Scene, Costumi: FILIPPO TONON
Airat Ichmouratov (b. 1973): Piano Concerto, Op. 40 (2012 – 13, revised 2021). Piano part edited by Jean-Philippe Sylvestre To Jean-Philippe Sylvestre. Concerto No. 1, Op. 7 (2004, revised 2021) in G minor for Viola and Orchestra. Viola part edited by Elvira Misbakhova. Elvira Misbakhova (viola). Jean-Philippe Sylvestre (pianoforte). London Symphony Orchestra. Carmine Lauri (direttore). Natalia Lomeiko (direttore ospite). Registrazione: LSO St Luke’s, Londra 19-20 Aprile (Concerto per pianoforte), 5 maggio (Concerto per viola n. 1). T. Time: 75′ 53″. 1 CD CHANDOS CHSA 5281
Il Concerto n. 1 per viola e orchestra e il Concerto per pianoforte e orchestra del compositore russo, naturalizzato canadese Airat Ichmouratov, che non ha mai nascosto la sua preferenza per una scrittura ancorata al sistema tonale, costituiscono il programma di una recente proposta discografica della Chandos, come dimostrato anche da questi due lavori composti in tempi diversi, ma rivisti di recente. Il primo fu scritto, infatti, nel 2004 per la violista Elvira Misbakhova, che aveva chiesto a Ichmouratov, allora studente di direzione d’orchestra a Montreal, un concerto che avrebbe dovuto essere da lei eseguito in occasione del suo esame di dottorato e nel quale convivessero elementi virtuosistici e momenti lirici, mentre il secondo, composto nel 2012-2013, è rimasto per quasi una decina d’anni nel cassetto dal quale è stato tratto grazie al contributo del pianista Jean-Philippe Sylvestre il quale ha apportato alla parte del solista anche modifiche, necessarie soprattutto in considerazione del fatto che Ichmouratov è un clarinettista e non un pianista. In tre movimenti, entrambi i lavori si riallacciano alla grande tradizione tardo-romantica di questa forma e, pur segnalandosi per la bellezza di alcune melodie e per la ricca tavolozza orchestrale utilizzata da Ichmouratov, che sicuramente dimostra un’ottima padronanza dei mezzi espressivi, destano dubbi e perplessità sulla validità e l’interesse che possa suscitare una scrittura che nel 2023 appare alquanto anacronistica se non del tutto superata. All’ascolto, infatti, si ha l’impressione di trovarsi di fronte a composizioni che rivelano un solido mestiere, senza far gridare al capolavoro. Ottima comunque l’esecuzione da parte di Elvira Misbakhova che, come Sylvestre, ha dato anche lei il suo contributo alla parte solistica e che evidenzia una splendida e calda cavata nei passi maggiormente espressivi, come il secondo movimento del Concerto per viola, e una solida tecnica nei momenti virtuosistici. Stesso discorso va fatto anche per il pianista Jean-Philippe Sylvestre, anche lui dotato di una solida tecnica e di un tocco veramente espressivo. Ottima anche la prova della London Symphony Orchestra, ben diretta da Carmine Lauri nel Concerto per pianoforte e da Natalia Lomeiko in quello per viola
Milano, Teatro alla Scala, Stagione 2023/24
“LA DAME AUX CAMÉLIAS”
Balletto in tre atti dal romanzo di Alexandre Dumas figlio
Coreografia e Regia John Neumeier
Musica Fryderyk Chopin
Marguerite Gautier ALINA COJOCARU
Armand Duval CLAUDIO COVIELLO
Monsieur Duval EDOARDO CAPORALETTI
Nanine CHIARA FIANDRA
Le Duc MASSIMO GARON
Prudence CAMILLA CERULLI
Le Comte de N. SAÏD RAMOS PONCE
Manon MARTINA ARDUINO
Des Grieux NICOLA DEL FREO
Olympia AGNESE DI CLEMENTE
Gaston Rieux GIOACCHINO STARACE
Un pianista MARCELO SPACCAROTELLA
Corpo di ballo e Orchestra del Teatro alla Scala di Milano
Direttore Simon Hewett
Scene e Costumi Jürgen Rose
Milano, 14 ottobre 2024
Come avevamo anticipato, siamo tornati al Teatro alla Scala per la replica del 14 ottobre de La dame aux camélias. Ci siamo già dilungati sulla coreografia la scorsa volta (qui la recensione della serata dell’8 ottobre). Aggiungiamo soltanto qualche considerazione legata ai commenti che siamo riusciti a captare in sala tra chi chiacchierava con il vicino nelle pause. Qualcuno ha notato una difficoltà a seguire la trama senza la lettura preventiva del soggetto. Pur essendo consci che ciò ha la significatività di tutte le cose che casualmente capitano, e quindi non si tratta di un’indagine strutturata, questa osservazione ci ha fatto ragionare sul fatto che noi non abbiamo colto questa difficoltà pur non avendo letto il soggetto. O meglio, una volta letto abbiamo notato che non tutto quello che il soggetto voleva comunicare ci è arrivato, ma ogni momento dello spettacolo ci appariva parlante. Non avremmo letto il soggetto se in sala non avessimo colto questa osservazione, e ci siamo chiesti il perché. Forse per la conoscenza del romanzo, com’è ad esempio per il rapporto della protagonista con Manon, che è colonna portante della drammaturgia di questa coreografia? O forse perché siamo riusciti a cogliere dei dettagli e sfumature che altri non sono riusciti a cogliere per una disattenzione, minore sensibilità o semplicemente a causa della posizione in cui si era seduti? Ci siamo effettivamente accorti che questa coreografia fonda molto sui particolari: un’espressione, un cartello (quello che annuncia il balletto di Manon effettivamente è scritto con una dimensione tale che non da tutte le posizioni è chiaramente leggibile: se non si riesce a leggere il cartello non si riesce a capire a quale balletto i protagonisti stanno assistendo, e quindi il riferimento al rapporto Margherita-Manon, ammesso che uno spettatore lo conosca…), oppure la coesistenza sul palco di due piani temporali che si sovrappongono e sono legati da un dettaglio, com’è per il finale: Margherita sta scrivendo in secondo piano sul palco il diario che Armand sta leggendo in primo piano, in un momento in cui lei è già morta nel “deserto del cuore” (o, se vogliamo, nel “popoloso deserto che appellano Parigi”, seguendo una celebre citazione de La Traviata). Tutto ciò è forse legato alle evoluzioni estetiche che il repertorio ha visto nel corso del tempo. Semplificando molto, bisogna sicuramente considerare che il rapporto controverso che la danza ha con il libretto dello spettacolo è cosa nota già alla settecentesca disputa Angiolini-Noverre. Inoltre, se il balletto romantico è passato da Giselle al grand ballet à la Marius Petipa, dove la trama era sostanzialmente in funzione della danza e delle sue abilità e i personaggi erano innanzitutto danzatori, con questi nuovi balletti narrativi successivi a Cranko nasce una nuova attenzione alla rappresentazione della vicenda, che a volte dà l’impressione di essere quasi cinematografica. Ma il cinema non è il teatro. Sta qui il nodo? Ma lasciamo qui la questione aperta. Non abbiamo soluzione. Passando ai protagonisti di questa serata, l’interpretazione di Margherita da parte di Alina Cojocaru ci è apparsa molto intima, fatta di pochi nervosismi tout court, ma piuttosto aleggiava una sorta di disagio perenne, una psicologia molto minuta e fatta di sguardi che lasciano solo intuire quel che sta dietro. Claudio Coviello è stato un Armand appassionato, ma anche con la capacità di essere cattivo nel momento necessario: per chi lo conosce, le sue capacità interpretative oltre a quelle di danzatore non sono una sorpresa, e maturano sempre, non vengono lasciate poi ai manierismi che si sono in passato rivelati efficaci. Lo spettacolo si chiude sul sipario che cala nel buio e nei suoi occhi lucidi. L’intero cast è stato all’altezza, e segnaliamo in special modo: Martina Arduino e Nicola Del Freo, nei ruoli di Manon e Des Grieux; Agnese Di Clemente, un’Olympia ricca di mossette e sfumature che ci confermano le capacità emerse durante il suo debutto nel ruolo di Giulietta tempo fa; Gioacchino Starace, che con la sua allure da divo dl cinema era molto azzeccato nel ruolo di Gaston (seppure con qualche sbavatura tecnica). Approfittiamo di questo spazio per commentare velocemente la musica, tutta di Chopin, musicista scelto da Neumeier per affinità biografiche con la donna a cui il romanzo è ispirato, e diretta da Simon Hewett. Anche se la principale protagonista è la pianista Vanessa Benelli Mosell, che ha suonato da protagonista durante tutto lo spettacolo, e da sola per tutto il secondo atto con grande sensibilità ma anche attenzione alla danza senza sminuire l’esecuzione musicale. Ultima replica il 16 ottobre con lo stesso cast, non perdetela! Foto Brescia & Amisano
Roma, Teatro Vascello
ALTRI LIBERTINI
di Pier Vittorio Tondelli
regia Licia Lanera
Compagnia Licia Lanera
con Giandomenico Cupaiuolo, Danilo Giuva, Licia Lanera, Roberto Magnani
luci Martin Palma
sound design Francesco Curci
costumi Angela Tomasicchio
aiuto regia Nina Martorana
tecnico di Compagnia Massimiliano Tane
Prodotto da Compagnia Licia Lanera con il sostegno di Ravenna Teatro
Romaeuropa Festival 2024 – In corealizzazione con la Fabbrica dell’Attore Teatro Vascello
Roma, 15 Ottobre 2024
“Ogni vita è un esperimento e se non si cade almeno una volta, non si può dire di aver vissuto veramente.” P. V. Tondelli
Tondelli, il suo stile di scrittura e l’esegesi del suo romanzo “Altri Libertini” rappresentano un’odissea letteraria e generazionale. L’opera è il manifesto di una gioventù che, tra gli anni Settanta e Ottanta, si ribellava a ogni convenzione, spinta da un desiderio febbrile di scoperta e di libertà. Con il suo linguaggio crudo, volutamente scomposto e spesso poetico, Tondelli tratteggia i contorni di un’umanità ai margini, esaltandone le fragilità e l’anelito di assoluto. In “Altri Libertini“, pubblicato nel 1980, l’autore racconta con vividezza la vita di giovani sradicati, tra viaggi, speranze, disillusioni e tentativi di riscatto. Una narrazione episodica, apparentemente frammentaria, che tuttavia costruisce un affresco coerente e potentemente evocativo di un’Italia in transizione, ancora sospesa tra modernità e conservatorismo. L’adattamento teatrale di questa raccolta per la regia di Licia Lanera, si inserisce perfettamente in questo contesto, riportando sulla scena le pulsioni vitali e le angosce dei personaggi tondelliani. Fin dall’apertura del sipario, la struttura narrativa, avvolta in un’apparente ambiguità drammaturgica, si disvela gradualmente, come se il testo si disciogliesse sotto l’azione performativa degli attori, veri demiurghi di senso. L’incertezza iniziale, frutto di una tensione voluta tra parola e azione, si trasforma in un percorso ermeneutico che, come un filo d’Arianna, conduce lo spettatore verso una comprensione più profonda. Gli attori, con il loro corpo e la loro voce, incarnano un processo di decostruzione e ricostruzione del racconto, intrecciando le proprie biografie artistiche alle suggestioni metatestuali, che trovano echi nelle opere di Pier Vittorio Tondelli. Non è, quindi, un semplice omaggio letterario. Il pubblico, che inizialmente si attendeva di assistere a una lineare parafrasi del mondo tondelliano, si trova di fronte a un ribaltamento di aspettative. La delusione, prima latente, si dissolve per lasciare spazio alla consapevolezza che lo spettacolo è ben altro: è un organismo vivo, che trascende la pagina scritta e dialoga con l’epoca evocata. La scena si radica in un contesto storico preciso: sono gli anni della droga, dell’AIDS, dei primi movimenti omosessuali che, in un’Italia ancora sospesa tra modernità e retaggi conservatori, iniziano a reclamare la propria visibilità e legittimità. Bologna, in quel decennio, emerge come la città più aperta e trasgressiva d’Italia, un crogiolo di sperimentazioni artistiche e politiche. Umberto Eco inaugurava il DAMS, mentre le aule dell’Alma Mater Studiorum ospitavano alcuni dei più grandi pensatori e artisti del tempo, rendendo la città un epicentro di una rivoluzione culturale. Le note di Vasco Rossi, icona ribelle di un’epoca in cui l’individualismo era strumento di affermazione, si fondono con i cori di protesta, configurando un paesaggio sonoro che diventa metafora di lotta esistenziale e collettiva. Licia Lanera, la prima regista a ottenere i diritti per la messa in scena teatrale di “Altri Libertini”, riesce a tradurre l’irriverenza e la disperata vitalità dei personaggi di Tondelli in una performance fisica ed emotiva. La regista sceglie tre racconti della raccolta – “Viaggio”, “Altri Libertini” e “Autobahn” – per creare un’unica narrazione drammatica che segue il filo conduttore della ricerca di libertà e identità in un contesto sociale asfissiante. Sul palco, gli attori Giandomenico Cupaiuolo, Danilo Giuva, la stessa Licia Lanera e Roberto Magnani interpretano le ansie, le passioni e le sconfitte di questi giovani, dando vita a un mondo frammentato e caotico, ma terribilmente autentico. Dal punto di vista scenografico, lo spettacolo è un esempio di minimalismo simbolico. La scena è volutamente spoglia, quasi sterile, a richiamare il vuoto esistenziale dei protagonisti. I personaggi si muovono in uno spazio indefinito, dove l’unico elemento di concretezza è la loro stessa fisicità. I movimenti coreografati degli attori, che attraversano la scena con energia e dinamismo, sono al centro della rappresentazione, mentre le luci, curate da Martin Palma, scandiscono i momenti emotivi più intensi. L’uso di fasci di luce netti e taglienti crea un contrasto visivo che accentua il senso di alienazione, illuminando solo frammenti di realtà, proprio come la narrazione frammentaria di Tondelli. Il sound design, firmato da Francesco Curci, è un altro elemento chiave che accompagna lo spettatore nel mondo caotico e disordinato di “Altri Libertini”. Al termine della rappresentazione, il grande trasporto del pubblico è stato evidente, con lunghi applausi e ovazioni. Gli attori, visibilmente commossi, hanno condiviso con il pubblico un momento di catarsi collettiva, una commozione liberatoria che ha attraversato la sala. E, nel contesto di tutto questo, emerge forte la consapevolezza di quanto manchi una figura come Tondelli nel panorama letterario odierno: un autore capace di raccontare senza filtri le ombre e le luci di una generazione, di dare voce a chi non ne aveva. La sua assenza si sente, ma la sua eredità continua a pulsare, viva e potente, grazie a opere come questa.
L’arte esce dai musei: la Dea Roma accoglie i visitatori all’Hotel Mediterraneo
Il progetto “Arte fuori dal Museo” porta capolavori nascosti negli alberghi romani, inaugurando una nuova sinergia tra cultura e turismo
Roma, 15 Ottobre 2024
Nel suggestivo contesto dell’Hotel Mediterraneo a Roma, ha preso vita un ambizioso progetto che unisce arte e turismo in una simbiosi innovativa e audace. “Arte fuori dal Museo” si configura come una felice espressione di quella crescente volontà, da parte delle istituzioni culturali e degli operatori del settore turistico, di superare i confini tradizionali dei luoghi espositivi per avvicinare il grande pubblico alle meraviglie del patrimonio storico-artistico italiano. Grazie all’accordo siglato tra la Direzione generale Musei del Ministero della Cultura, Federalberghi Lazio e l’associazione LoveItaly, è stato avviato un programma di valorizzazione che vede protagoniste opere d’arte e reperti archeologici finora custoditi nei depositi museali, ora resi visibili in spazi non convenzionali, come gli alberghi. La statua della Dea Roma, opera risalente al II secolo d.C., rappresenta la prima testimonianza concreta di questa iniziativa, esposta nella grande hall dell’Hotel Mediterraneo. Il marmo bianco, che fino a poco tempo fa giaceva nei depositi del Museo Nazionale Romano, è stato sottoposto a un accurato restauro grazie al contributo del gruppo Bettoja Hotels, che ha anche finanziato il trasporto e l’allestimento della statua in una teca protettiva. Questo esemplare raffigurante la Dea Roma o Virtus, con i tratti vigorosi del viso e l’imponente portamento militare, si inserisce armoniosamente negli interni dell’Hotel Mediterraneo, arricchiti da marmi e mosaici ispirati alla mitologia e alla romanità, conferendo all’intero progetto un significato ancora più profondo. Il progetto “Arte fuori dal Museo” nasce da una visione lungimirante che, come sottolineato dal direttore del Museo Nazionale Romano Stéphane Verger, mira non solo a rendere accessibili opere altrimenti inaccessibili al pubblico, ma a sperimentare nuovi modi di fruizione del patrimonio culturale. Questa collaborazione tra pubblico e privato si configura come una risposta pragmatica alle esigenze di valorizzazione dei tesori nascosti nei depositi museali, che spesso, per ragioni di spazio o di rotazione delle esposizioni, non trovano collocazione permanente all’interno dei musei stessi. La possibilità di esporre questi capolavori in ambienti inusuali, come le prestigiose sale degli alberghi, rappresenta una duplice opportunità: da un lato, consente ai visitatori e agli ospiti degli hotel di vivere un’esperienza unica di contatto diretto con la storia e l’arte; dall’altro, conferisce agli stessi alberghi un nuovo prestigio, legato alla loro capacità di custodire e rendere accessibile il bello. Le parole del presidente del gruppo Bettoja Hotels, Maurizio Bettoja, riflettono pienamente questa visione. La statua della Dea Roma, con il suo elmo ornato da un pennacchio e la corta tunica che lascia scoperto il seno destro, si integra perfettamente con l’estetica dell’Hotel Mediterraneo, il cui design razionalista, con richiami alla mitologia classica e alla grandezza della civiltà romana, trova in questo marmo una sintesi visiva e concettuale del proprio spirito. L’esposizione della statua, che resterà visibile per dodici mesi, è solo il primo passo di un progetto che, nelle intenzioni dei suoi promotori, potrebbe estendersi ad altri alberghi di Roma e del Lazio, arricchendo l’offerta culturale e turistica della regione. L’idea di rendere fruibili opere d’arte in spazi così particolari, come ha sottolineato Massimo Osanna, Direttore generale Musei, risponde a una precisa esigenza: esplorare strategie innovative per diffondere il patrimonio culturale e renderlo accessibile a un pubblico sempre più vasto. La collaborazione tra musei e hotel, come quella avviata tra il Museo Nazionale Romano e il gruppo Bettoja Hotels, si inserisce perfettamente in questa visione, garantendo non solo la tutela delle opere esposte, ma anche una loro maggiore visibilità e apprezzamento da parte di visitatori provenienti da ogni parte del mondo. L’iniziativa “Arte fuori dal Museo” non si limita alla semplice esposizione di opere d’arte. Il progetto mira a creare una nuova narrazione del patrimonio culturale, in cui arte e turismo si fondono in un dialogo continuo. Questa innovativa sinergia tra l’ambito culturale e quello ricettivo trova un equilibrio perfetto, permettendo a reperti archeologici e capolavori artistici di vivere una nuova stagione di visibilità, mentre gli alberghi diventano luoghi in cui il tempo si dilata e la storia si manifesta in ogni dettaglio architettonico, offrendo ai visitatori l’opportunità di immergersi in un’esperienza unica di bellezza e memoria. Ai promotori dell’iniziativa spetta il merito di aver intuito come questa convergenza tra arte e ospitalità possa generare un beneficio condiviso, capace di arricchire l’esperienza del viaggiatore e, al contempo, contribuire alla diffusione della cultura italiana, valorizzando non solo il patrimonio conservato nei musei, ma anche quei luoghi che, come gli alberghi, rappresentano da sempre un punto di riferimento per chi visita la Città Eterna. PhVirginiaBettoja
Roma, Teatro Vascello
RomaEuropa Festival 2024
CIME TEMPESTOSE
di Emily Brontë un progetto di Martina Badiluzzi
regia e drammaturgia Martina Badiluzzi
con Arianna Pozzoli e Loris De Luna
dramaturg Giorgia Buttarazzi
collaborazione alla drammaturgia Margherita Mauro
scene Rosita Vallefuoco
suono e musica Samuele Cestola
luci Fabrizio Cicero
drammaturgia del movimento Roberta Racis
produzione Cranpi, CSS Teatro stabile di innovazione del Friuli Venezia Giulia, Romaeuropa Festival
in corealizzazione con La Fabbrica dell’Attore – Teatro Vascello
con il contributo di MiC – Ministero della Cultura
con il sostegno di Teatro Biblioteca Quarticciolo
Il potere trasformativo della scrittura femminile si manifesta attraverso autrici come Emily Brontë che hanno ridefinito il panorama letterario e plasmato l’immaginario di generazioni. Attraverso romanzi come “Cime tempestose”, la scrittrice ha saputo esprimere il fervore per l’emancipazione che ha permeato la sua esperienza nella brughiera dello Yorkshire vittoriano. Cresciuta in un contesto che mescolava la selvaggia natura della regione con i fermenti della rivoluzione industriale, costretta a celare la sua attività di autrice sotto uno pseudonimo maschile, Brontë rifletteva profondamente sull’alienazione emergente nella società capitalistica dell’epoca. Non è quindi un caso se la regista Martina Badiluzzi si sia rivolta a questo romanzo e alla sua autrice per il quarto capitolo del suo ciclo sulle identità femminili (“Cattiva sensibilità”, “The making of Anastasia” – vincitore del bando Biennale di Venezia Registi Under 30 nel 2019 – e “Penelope” – co-prodotto da Romaeuropa Festival 2022). Il suo “Cime Tempestose” è un dialogo tra interiore ed esteriore, una riflessione sull’ambivalenza della natura umana. Trasportando gli spettatori al centro dell’universo tormentato di Catherine e Heathcliff (qui interpretati da Arianna Pozzoli e Loris De Luna), Badiluzzi rende omaggio alla potenza intrinseca della letteratura e dell’arte, concludendo il suo percorso sulle identità con due figure tragiche del contemporaneo «mito fondante della nostra società, racconto del profondo fraintendimento tra femminile e maschile, tra natura e civiltà». Qui per tutte le informazioni.
Roma, Teatro Brancaccio
PETER PAN: IL MUSICAL
Luca Nencetti nel ruolo di Peter Pan
Martha Rossi nel ruolo di Wendy
Renato Converso nel ruolo di Spugna
e con la partecipazione straordinaria di Claudio Castrogiovanni nel ruolo di Capitan Uncino
musiche Edoardo Bennato
scenografie Rinaldo Rinaldi, Rino Silveri
direzione musicale Davide Magnabosco
vocal coach Alex Procacci
coreografia Rita Pivano
tecnica acrobatica Olga Nuraliyeva
laboratorio scenografico Materico
design luci Amilcare Canali
video designer Virginio Levrio
costumi Annunziata – Nunzia – Aceto
parrucche Francesca Scalera
Tratto dal romanzo di James Matthew Barrie che ha conquistato generazioni di ragazzi e non, Peter Pan – Il Musical non è un semplice spettacolo teatrale, ma un vero e proprio sogno da condividere con gli amici e la famiglia. “Il rock di Capitan Uncino”, “La fata”, “Viva la mamma”, “Sono solo canzonette”, la celeberrima “L’Isola che non c’è” e molti altri brani del famoso cantautore ti accompagneranno in questo straordinario viaggio che è anche un meraviglioso viaggio in musica. 20 performer in scena, diretti dal regista Maurizio Colombi, animano un mondo magico arricchito da grandi effetti speciali come il volo di Peter. Le scenografie realizzate con grande maestria faranno da sfondo agli immancabili duelli tra Peter e Capitan Uncino e i suoi pirati, alle avventure di Peter, Wendy e i suoi fratelli con la fatina Trilli, il simpatico Spugna, la vivace compagnia dei Bimbi Sperduti, Giglio Tigrato e il sinistro ticchettio dell’astuto Coccodrillo che terrorizza Uncino. Dopo il debutto assoluto nel 2006 al Teatro Augusteo di Napoli, è stato riallestito diverse volte negli anni fino all’ultima produzione del 2019. La sua eterna fama e i prestigiosi premi ricevuti, hanno contribuito a espandere la sua popolarità anche all’estero, fino ad arrivare nel 2018 anche alla Royal Opera House Muscat in Oman. Preparati. Solo chi sogna può volare! Qui per tutte le informazioni.
Roma, Museo di Roma In Trastevere
ROMA CHILOMETROZERO
Dal 16 ottobre 2024 al 9 marzo 2025 il Museo di Roma in Trastevere ospita “Roma ChilometroZero”, un progetto fotografico che ha l’ambizioso obiettivo di raccontare la città di Roma attraverso gli occhi di quindici fotografi romani. Si tratta di una ricerca di straordinaria profondità, capace di cogliere la complessità, i cambiamenti e le particolarità di una città che non smette mai di stupire e affascinare. L’iniziativa nasce con l’intento di offrire una prospettiva inedita, esplorando le sfumature più intime di Roma, che spesso sfuggono all’immaginario collettivo fatto di monumenti iconici e bellezze conosciute in tutto il mondo. I fotografi coinvolti, ognuno con il proprio stile e sensibilità, hanno dato vita a un mosaico di immagini che mostrano una città dalle mille facce: non solo il centro storico ma anche i quartieri periferici, i dettagli nascosti, gli sguardi delle persone, gli angoli che raccontano storie dimenticate o appena emerse. “Roma ChilometroZero” è più di una semplice esposizione: è un metodo di indagine alternativa, una raccolta di punti di vista diversi e spesso lontani dalla narrazione consueta della capitale. Ogni fotografo ha scelto un tema, un percorso, una chiave interpretativa che ha trasformato in un racconto visivo. Gianluca Abblasio, Linda Acunto, Andrea Agostini, Matteo Capone, Clelia Carbonari, Alfredo Corrao, Alessio Cupelli, Nicoletta Leni Di Ruocco e Massimiliano Pugliese, Simona Filippini, Sara Nicomedi, Lavinia Parlamenti, Valerio Polici, Gianni “Gianorso” Rauso, Paolo Ricca e Francesca Spedalieri: ognuno di loro ha contribuito a creare un ritratto inedito di Roma, fatto di storie intime e coraggiose, capaci di sorprendere e emozionare. Il progetto, oltre a offrire una lettura diversa della città, rappresenta un’occasione di scoperta e riscoperta del territorio, permettendo al pubblico di osservare con occhi nuovi ciò che è da sempre sotto i loro sguardi, ma che spesso viene ignorato. Si tratta di un incontro tra due leggende: la città eterna, con la sua storia millenaria, e la fotografia, linguaggio contemporaneo in grado di raccontare e reinterpretare il reale. La mostra conclusiva, che raccoglierà le immagini più significative del progetto, sarà una celebrazione di questo lavoro corale, offrendo al pubblico una panoramica sulla Roma di oggi, con le sue contraddizioni, i suoi colori, le sue ombre e le sue luci. Le immagini selezionate saranno inoltre raccolte in un volume edito da Contrasto, in concomitanza con l’esposizione, e parte delle stampe realizzate verranno donate all’Archivio fotografico del Museo di Roma, garantendo così che questo importante lavoro di documentazione rimanga a disposizione delle future generazioni. “Roma ChilometroZero” è un invito a perdersi nella città, a lasciarsi sorprendere dai suoi dettagli, a scoprire una Roma che non è solo quella dei turisti e delle cartoline, ma è anche quella vissuta ogni giorno dai suoi abitanti, fatta di vite comuni e straordinarie allo stesso tempo. Un progetto che – come la città che racconta – non è mai uguale a se stesso, ma è in continua evoluzione, in un dialogo costante tra passato e presente, tra memoria e contemporaneità.
Roma, RomaEuropa Festival 2024
“DEAR SON”
Coreografia Simone Repele & Sasha Riva
Danzatori Anne Jung, Sasha Riva, Simone Repele
Musiche Gino Paoli, Claudio Villa, Fabrizio de André, Ólafur Arnalds, Arvo Pärt
Disegni Gu Jiajun (con l’aiuto di Adèle Vettu)
Disegno luci Alessandro Caso
Produzione Riva & Repele, Le Voisin
Coproduzione Orsolina 28, Centre des Arts Geneve, Romaeuropa Festival, Daniele Cipriani Entertainment
Roma, Auditorium Parco della Musica Ennio Morricone, 10 ottobre 2024
Uno spettacolo intimo, drammatico, familiare, piuttosto distaccato dal resto degli spettacoli di danza visti quest’anno a RomaEuropa Festival, è stato ai nostri occhi Dear Son, presentato sere fa nella Sala Petrassi dell’Auditorium Parco della Musica. Ad attrarci due nomi di rilievo della coreografia contemporanea, quali Simone Repele e Sasha Riva, già danzatori del Balletto di Amburgo e del Balletto di Ginevra e fondatori nel 2020 di una propria compagnia che si è imposta all’attenzione per una particolare sensibilità poetico-teatrale fin dalla prima produzione, Lili Elbe Show. Nel loro linguaggio la danza neoclassica si fonde perfettamente con il contemporaneo, distinguendosi per una particolare energia figurativa. Mesi fa ne avevamo ammirato la levità evocativa capace di infondere una certa giocosità finanche al tema della morte per amore, trasposto dalla tradizione del balletto alla contemporanea quotidianità, nel lavoro I Died for Love presentato in febbraio nella stagione del Teatro dell’Opera di Roma in una serata dedicata ai giovani coreografi. In quell’occasione importante era stato il confronto con il corpo di ballo del teatro e con le scene di Michele Della Cioppa, nonché con i costumi di Anna Biagiotti. A RomaEuropa adesso ci confrontiamo con un trio di interpreti formato dagli stessi coreografi supportati dall’intensa presenza scenica di Anne Jung e una scena molto più spoglia e ridotta all’essenziale. Grande importanza hanno qui le luci di Alessandro Caso e la scelta delle musiche. Dei frastuoni elettronici iniziali nel buio, con i danzatori a terra echeggiano il tema della guerra. Poi un tavolino laterale in un’atmosfera illuminata da una luce soffusa, con la danzatrice di spalle che osserva una foto. È questo il pretesto per una serie di flashback, destinati a mettere insieme passato, presente e futuro. Di nuovo un rimando alla guerra, ma più ironico, grazie alle strofe di Bella ciao, che inneggiano alla Resistenza. Di origini torinesi è del resto Simone Repele, e lo spettacolo è stato ideato presso la Fondazione Orsolina 28 a Moncalvo, in Piemonte. La musica leggera italiana apporta un clima leggermente vintage e nel suo fondersi con brani più contemporanei ben si presta all’idea dei vari sfasamenti temporali. Ad infondere un particolare tocco lirico è Il cielo in una stanza di Gino Paoli, che fin dal titolo comunica l’assenza di peso nel trattamento del tema. Dear Son è difatti la lettera di una madre al figlio perduto in guerra, l’esperienza più atroce che possa capitare ad un genitore. Nello sguardo della madre però il dolore è mitigato dalla dolcezza del ricordo dei primi tempi d’amore, di quando il figlio era ancora in grembo e di quando la famiglia era stata felice. Gli interpreti si alternano in espressivi passi a due, che attraverso incisivi movimenti neoclassici alternati al contemporaneo permettono di esplorare la potenza dei sentimenti osservati dall’esterno. L’interpretazione è radicata nella performatività del corpo. I gesti e le espressioni del viso anche quando calcati servono a fissare momenti di vita che appaiono distanti. I quadri coreografici si alternano senza appesantire in alcun modo lo spettatore che forse a volte desidererebbe una maggiore corposità. Uno sbriciolare di farina richiama alla mente ancora una volta la guerra, ma anche la sopravvenuta vecchiaia e la perdita della freschezza di un tempo. Con delicatezza lo spettacolo si chiude grazie ai disegni di Gu Jiajun, che simbolizzano un legame familiare che mai si estingue, va oltre passato e presente, la vita e la morte. Spettacolo più di nicchia del solito per Romaeuropa, ma penetrante nella sua ispirata drammaticità. Foto Angelina Bertrand
Roma, Villa Borghese
PROGETTO D’ARTE LAVINIA
Nel cuore pulsante di Villa Borghese, uno dei più illustri tesori architettonici della Capitale, si assiste a una rinascita culturale di notevole portata. Il 18 ottobre verrà presentata la conclusione del primo lotto di restauro della storica Loggia dei Vini, un raffinato padiglione per banchetti edificato tra il 1609 e il 1618 per volere di Papa Paolo V Borghese. Questo luogo, un tempo fulcro di riunioni e feste conviviali durante le calde serate estive, riapre finalmente le sue porte al pubblico, svelando nuovi splendori e antiche meraviglie. Il restauro, eseguito con meticolosa cura da R.O.M.A. Consorzio sotto la supervisione scientifica della Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali, è stato reso possibile grazie alla generosa donazione della società Ghella. Il progetto prevede tre fasi di lavorazione, ciascuna mirata a restituire alla Loggia la sua originaria magnificenza. La prima fase, appena conclusa, ha interessato la volta interna, l’affresco centrale e i pilastri del padiglione, precedentemente compromessi da insidiose infiltrazioni d’acqua. Gli interventi hanno permesso di recuperare preziosi dettagli architettonici e pittorici, riportando alla luce colori e forme che il tempo aveva offuscato. A partire dal 19 ottobre, la riapertura della Loggia dei Vini sarà ulteriormente arricchita dal progetto d’arte contemporanea LAVINIA, curato da Salvatore Lacagnina. Concepito per instaurare un dialogo armonioso tra lo spazio storico della Loggia e le moderne espressioni artistiche, LAVINIA si propone di avvicinarsi silenziosamente alla quotidianità dei visitatori, rivolgendosi a chiunque percorra i viali del parco senza imporre alcuna forma di “auctoritas“. Il progetto sfida le convenzionali nozioni di arte pubblica e tradizione, esplorando il sottile rapporto tra arte e architettura e aprendo nuove prospettive attraverso il potenziale dello storytelling. Gli artisti coinvolti – Ross Birrell & David Harding, Enzo Cucchi, Piero Golia, Virginia Overton, Gianni Politi e Monika Sosnowska – hanno realizzato opere site-specific che dialogano con l’ambiente circostante, invitando il pubblico a una riflessione profonda sull’interazione tra passato e presente. Il nome LAVINIA è un omaggio a Lavinia Fontana, tra le prime artiste riconosciute nella storia dell’arte e figura di spicco nel panorama artistico del XVI secolo. Presente nella collezione Borghese sin dai primi del Seicento, Lavinia Fontana rappresenta un simbolo di talento e determinazione femminile, e il progetto ne celebra la memoria attraverso una contemporanea rilettura del suo lascito culturale. L’iniziativa rappresenta un connubio straordinario tra conservazione del patrimonio storico e promozione dell’arte contemporanea. La Loggia dei Vini, con la sua architettura elegante e la sua storia secolare, offre uno scenario ideale per ospitare opere che interrogano e reinterpretano lo spazio, creando un dialogo vivo e stimolante tra le diverse epoche. Ross Birrell & David Harding esplorano tematiche legate al viaggio e alla migrazione, mentre Enzo Cucchi porta avanti una ricerca sul simbolismo e la metafisica dell’arte. Piero Golia sfida le percezioni comuni attraverso interventi concettuali, e Virginia Overton utilizza materiali recuperati per creare installazioni che riflettono sulla sostenibilità e sull’interazione con l’ambiente. Gianni Politi rivisita la tradizione pittorica italiana con uno sguardo contemporaneo, e Monika Sosnowska trasforma elementi architettonici in sculture che giocano con lo spazio e la forma. LAVINIA non è solo un’esposizione, ma un’esperienza immersiva che invita il pubblico a riscoprire la Loggia dei Vini sotto una luce nuova, stimolando una consapevolezza maggiore del valore storico e culturale del luogo. Il progetto è promosso da Ghella, azienda da sempre attenta alla valorizzazione del patrimonio artistico e culturale, in collaborazione con Roma Capitale, Assessorato della Cultura e Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali. L’organizzazione e la promozione dell’evento sono affidate a Zètema Progetto Cultura, che ha contribuito a coordinare le diverse realtà coinvolte, garantendo una sinergia efficace e produttiva. La riapertura della Loggia dei Vini rappresenta un passo significativo nella valorizzazione di Villa Borghese come polo culturale di eccellenza. Grazie a interventi come LAVINIA, il parco non è solo uno spazio verde nel cuore di Roma, ma anche un luogo dove storia e contemporaneità si incontrano, offrendo ai cittadini e ai visitatori un’esperienza ricca e stratificata. La partecipazione attiva di enti pubblici, aziende private e artisti internazionali testimonia l’importanza della collaborazione nel promuovere iniziative culturali di alto profilo. È attraverso queste sinergie che è possibile preservare il patrimonio storico, renderlo accessibile al grande pubblico e al contempo stimolare la creatività e l’innovazione artistica. La rinascita della Loggia dei Vini e il progetto LAVINIA segnano un momento di grande rilevanza per la vita culturale di Roma. Invitando il pubblico a esplorare nuovi orizzonti artistici all’interno di un contesto storico di rara bellezza, l’iniziativa si pone come esempio virtuoso di come l’arte possa fungere da ponte tra passato e presente, tra tradizione e modernità. Non resta che attendere il 19 ottobre per immergersi in questa esperienza unica, dove ogni dettaglio è pensato per affascinare, ispirare e coinvolgere. Un invito aperto a tutti coloro che desiderano lasciarsi sorprendere dalla magia dell’arte in uno dei luoghi più suggestivi della città eterna. Crediti fotografici Daniele Molajoli, courtesy Ghella
Roma, Gianicolo
RIAPRE IL SANTUARIO SIRIACO
Scoperto nel 1906, il Santuario Siriaco del Gianicolo rappresenta un tesoro archeologico unico nel panorama romano. Situato nel rione Trastevere, alle falde di Villa Sciarra, questo complesso ha attratto l’interesse di archeologi e storici per oltre un secolo, offrendo un importante sguardo sui culti antichi che caratterizzavano la vita spirituale della Roma tardoantica. Costruito nel IV secolo d.C. sui resti di edifici preesistenti risalenti al I-II secolo d.C., il santuario fu a lungo considerato un luogo dedicato ai culti siriaci, ipotesi che ne ha dato il nome attuale. Tuttavia, studi recenti suggeriscono una destinazione più complessa, forse legata al culto di Osiride, come indicato dalla scoperta di una statuetta in bronzo di una figura maschile avvolta nelle spire di un serpente. Il Santuario Siriaco del Gianicolo ha rappresentato un punto focale per comprendere la persistenza dei culti pagani durante il periodo tardoantico. Inizialmente, gli studiosi lo associarono ai culti siriaci per la sua posizione e il contesto archeologico, che sembravano suggerire la presenza di divinità orientali nel cuore della Roma del IV secolo. Tuttavia, dal 2000, grazie a nuove indagini archeologiche e studi più approfonditi, è stata avanzata l’ipotesi che il santuario fosse in realtà dedicato a Osiride, una delle divinità più venerate del pantheon egizio. La statuetta in bronzo di una figura maschile avvolta da un serpente, oggi conservata al Museo Nazionale Romano, rappresenta un elemento chiave per sostenere questa nuova interpretazione. Trovata in un ambiente sotterraneo, questa figura richiama l’iconografia di Osiride, soprattutto nella sua forma legata alla rinascita e alla rigenerazione, tipica dei culti misterici. La presenza di tale oggetto suggerisce che il complesso potesse ospitare rituali connessi al ciclo di morte e rinascita, particolarmente significativi nel contesto dei culti iniziatici egizi. Il responsabile del sito, Rocco Bochicchio, ha recentemente sottolineato come il Santuario Siriaco rappresenti non solo un luogo di culto, ma anche un nodo vitale collegato all’attività commerciale e produttiva della Roma antica. Situato vicino agli scali fluviali e ai mercati, il santuario si trovava in una zona che era una vera e propria porta verso il Mediterraneo, permettendo lo scambio di merci, persone e, evidentemente, anche idee religiose. Questa posizione privilegiata facilitava la diffusione dei culti orientali e dei rituali misterici che erano diffusi tra la popolazione romana, in particolare tra le classi mercantili e artigiane. La riapertura del santuario, come spiegato dalla Soprintendente Speciale di Roma, Daniela Porro, è un momento molto atteso, poiché permetterà al pubblico di accedere a questa area archeologica dopo cinque anni di chiusura. La riapertura coincide con l’avvio di interventi finanziati dal PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza) che includono la messa in sicurezza del sito, il restauro delle strutture e la creazione di un’area espositiva e di accoglienza nella ex casa del custode. Questo progetto intende non solo valorizzare il sito archeologico, ma anche renderlo fruibile al grande pubblico, sottolineando l’importanza del patrimonio culturale come elemento di identità e coesione sociale. La riapertura del Santuario Siriaco del Gianicolo rappresenta un’opportunità unica per immergersi nella complessità della Roma tardoantica, un’epoca in cui il cristianesimo e i culti pagani convivevano e si influenzavano reciprocamente. La possibilità di visitare questo sito archeologico offre al pubblico uno sguardo diretto su un’area che riflette la stratificazione culturale e religiosa di Roma, testimoniando l’incontro tra culti orientali e pratiche locali. Le visite libere e gratuite si terranno nei giorni 27 ottobre e il 10 novembre, con intervalli di trenta minuti dalle 9:30 alle 12:30. La prenotazione è obbligatoria, scrivendo a ss-abap-rm.santuariosiriaco@cultura.gov.it. L’ingresso avverrà in via Dandolo 47. Questa iniziativa, volta a favorire la conoscenza e la valorizzazione di un patrimonio spesso poco noto, testimonia la volontà della Soprintendenza Speciale di Roma di promuovere una più ampia fruizione del nostro ricco passato archeologico. Con il restauro e la futura apertura di uno spazio espositivo, il Santuario Siriaco potrebbe diventare un punto di riferimento non solo per gli studiosi, ma anche per tutti coloro che sono interessati alla storia delle religioni e all’archeologia della capitale. L’attenzione al contesto culturale e alla connessione con le attività economiche dell’epoca aggiunge una dimensione ulteriore alla comprensione del sito, rendendo evidente come la religione e l’economia fossero intrecciate nella vita quotidiana dell’antica Roma. Questa riapertura è, dunque, un passo significativo verso una migliore comprensione del nostro patrimonio e una più profonda valorizzazione della storia millenaria di Roma.