Venezia, Teatro La Fenice, Stagione Sinfonica 2024-2025
Orchestra del Teatro La Fenice
Direttore Stanislav Kochanovsky
Sergej Prokof’ev: “Chout” (Il buffone) op. 21; Pëtr Il’ič Čajkovskij: “Il lago dei cigni” – estratti
Venezia, 5 luglio 2025
Una serata interamente dedicata alla musica per la danza non poteva che svolgersi nel nome di due grandi autori russi, che hanno contribuito in modo decisivo alla diffusione e al rinnovamento del balletto classico, seppure con cifre stilistiche tra loro alquanto diverse. Questo l’intento programmatico del recente concerto, svoltosi nell’ambito della Stagione Sinfonica del Teatro La Fenice – l’ultimo prima della pausa estiva –, che ha visto il gradito ritorno a Venezia di un altro esponente della grande cultura musicale al di qua degli Urali: il maestro Stanislav Kochanovsky, che ha diretto Chout di Prokof’ev e alcuni estratti da Il lago dei cigni di Čajkovskij. Per il tema, alquanto sessista e misogino, Chout – il secondo balletto di Prokof’ev, composto nel 1920 per i Ballets Russes di Sergej Diaghilev e messo in scena a Parigi il 17 maggio 1921 – ha richiamato alla nostra memoria Pericolosamente, un atto unico di Eduardo De Filippo, nel quale un marito, per tenere a freno la moglie, irascibile quanto ingenua, le spara (a salve) non appena questa accenna ad un litigio, provocando in lei – che, restando illesa, si crede miracolata – un repentino cambiamento di umore. È un po’ quello che avviene nel balletto di Prokof’ev, dove un astuto buffone, per estorcere denaro ad altri sette giullari li invita a casa propria e finge, di fronte a loro, di uccidere la moglie – rifiutatasi di apparecchiare la tavola –, senonché la donna, dopo qualche colpo di frusta infertogli dal marito, riprende vita e si mostra obbediente. I sette invitati – credendo di aver trovato il modo di dare un’analoga lezione alle loro mogli – comprano a peso d’oro la frusta e, tornati a casa, uccidono le rispettive consorti, le quali ovviamente, nonostante le frustate, non ritornano in vita. Ma questo non è che l’inizio di una serie di rocambolesche vicende, che vedranno i sette sprovveduti buffoni soccombere agli intrighi dell’astuto protagonista. Lavoro di carattere satirico e crudele, tipicamente russo, ispirato a un racconto tratto dalla raccolta di Antiche fiabe russe di Alexander Afanas’ev, Chout si fonda su una musica, piena di trovate strumentali e di spunti sarcastici, sfoggiando un’orchestrazione di grande brillantezza. Più che alla Sagra della primavera il compositore parve ispirarsi a Petruška, che lo aveva interessato anche per il sadismo inflitto al povero burattino. Di grande impatto sonoro l’interpretazione offerta da Kochanovsky, che con un gesto di espressionistica potenza ha guidato la nutrita compagine orchestrale lungo questa partitura piena di fantasia e di brio, con vari elementi tratti dal folklore russo: ‘barbariche’ le sonorità dell’ampia sezione delle percussioni, ma effetti percussivi e metallici erano prodotti anche dal pianoforte e dalle due arpe. Dopo l’iniziale sferragliare dell’orchestra, le varie scene si sono succedute tra scintillanti invenzioni sonore, dissonanze, asperità, soluzioni poliritmiche, frequenti reiterazioni dal carattere meccanico: protagonisti gli ottoni con le loro potenti sonorità e i violini spesso proiettati nel registro acuto o suonati sul ponticello. Non sono, comunque, mancati momenti di malinconico lirismo, che denotavano una sottile ricerca armonica e timbrica.
Quanto al Lago dei cigni, il primo dei grandi balletti di Čajkovskij è uno dei caposaldi del balletto classico, per quanto sia stato inizialmente sfortunato. Composto tra il 1875 e il 1876 e andato in scena con scarso successo al Bol’šoj di Mosca il 4 marzo 1877, si affermò solo grazie al celebre allestimento di Petipa e Ivanov, proposto al pubblico dopo la prematura morte dell’autore nel 1894 (limitatamente al secondo atto) e nel gennaio 1895 (completo). La vocazione a comporre musica per balletto consentì a Čajkovskij di rinnovare questo genere in modo geniale fin dalla prima esperienza, che anche per la sua originalità e novità fu scarsamente compresa. Congeniale alla sensibilità di Čajkovskij era certamente il soggetto del balletto: l’amore infelice tra il principe Siegfried e Odette, una sventurata fanciulla, costretta, per un crudele incantesimo, a trasformarsi durante il giorno in un cigno; un amore che si conclude con la morte dei due giovani, uniti per sempre. Per la coerenza drammatica, il respiro sinfonico e l’intensità espressiva, il primo balletto di Čajkovskij rivela complessità e inquietudini fino ad allora sconosciute dal genere, rese con suprema eleganza. Ne ha offerto un esempio, nel corso della suggestiva interpretazione del maestro russo, il tema più celebre del balletto: un tema fondato su una sequenza discendente in minore – ad evocare l’infausto destino – e legato ai cigni e a Odette: presentato nel Preludio dall’oboe – prima di un movimento agitato, ad evocare il sortilegio del mago Rothbart ai danni della fanciulla – è tornato più volte in momenti particolarmente drammatici, assumendo sempre maggiore forza drammatica. Comunque nel balletto c’è spazio anche per episodi brillanti e divaganti (divertissements), come la festa per il compleanno di Sigfrido nel primo atto, dove l’Orchestra ha sfoggiato un giusto accento elegante e spensierato. Straordinaria la prestazione del primo violino di Miriam Dal Don, nell’evocare l’incontro fatale fra il principe e Odette, nel secondo atto: dopo un’introduzione, in cui si è messa in luce l’arpa, il violino solo ha intonato con grazia e leggerezza – ma, al tempo stesso, con intensità emotiva – lo struggente tema lirico a lui affidato; un tema che nel corso della elaborazione successiva è stato ripreso con analoga finezza interpretativa dal violoncello. Il tema del cigno è risuonato ancora verso la fine – tratto dalla parte conclusiva del breve quarto atto, dalla drammaticità straordinariamente sobria e concisa –, qui intonato, a mo’ di apoteosi, dalle trombe in modo maggiore, seguito dalla cadenza conclusiva tra gli ultimi ghirigori dell’arpa. E a una vera apoteosi si è assistito anche dopo la fine dello spettacolo, quando il pubblico ha salutato degnamente il direttore e gli orchestrali.
Disc 1: Concerto for Violin and Winds (1970); Concerto for Violin and Strings (1977) Philharmonia Orchestra. David Parry (direttore). Cristina Anghelescu (violino).
Disc 2: Cello Concerto (1997). Albany Symphony Orchestra. David Alan Miller (direttore). Anthony Ross (violoncello).
Registrazione: 29 giugno-3 luglio 1998 presso la Henry Wood Hall di Londra (Concerti per violino); 22 aprile 2001 presso la Troy Savings Bank Music Hall, Troy, NY (Concerto per violoncello). T. Time: 64′ 37″ (CD1) 29′ 40″ (CD2). 2 CD Lyrita SRCD.24223
Di formazione violinistica, George Lloyd, della cui vita e attività si è già parlato a proposito della nostra recensione sui Concerti per pianoforte, dedicò al suo strumento soltanto due concerti nei quali è possibile notare la sua profonda conoscenza delle possibilità tecniche del violino. Composto nel 1970, il Concerto per violino e fiati, che sarebbe stato eseguito per la prima volta soltanto quasi trent’anni dopo nel 1998 in occasione di questa incisione, presenta un insolito organico costituito dai soli fiati (tre flauti di cui il terzo con obbligo di ottavino, due oboi, il corno inglese, due clarinetti, un clarinetto basso, due fagotti, un controfagotto, due corni, due trombe e due tromboni) e si segnala per il carattere vivace dei due movimenti esterni, marcati il primo Con Brio e Grazioso il terzo, e per l’intenso lirismo di quello centrale, Lento. Inoltre, il particolare organico non disturba affatto il violino, che potrebbe sembrare a prima vista poco a suo agio con i fiati, ma che invece emerge sempre con grande personalità. Un organico più tradizionale, e, oserei dire, di ascendenza barocca presenta il Concerto per violino e archi, il quale ebbe una fortuna migliore del fratello maggiore. Composto nel 1977, fu, infatti, eseguito per la prima volta, il 5 gennaio 1986, sotto la direzione del compositore con la BBC Philharmonic Orchestra, nello Studio 7 della New Broadcasting House, Manchester con Manoug Parikian in qualità di solista. In quattro movimenti il Concerto si apre con un suggestivo Lento, nel quale inizialmente il solista e gli archi dialogano in una scrittura drammatica che conduce a una episodio sinistro. Questo clima si rasserena nel successivo Con Brio, pagina nella quale il solista mette in mostra tutte le sue doti virtuosistiche, per assumere un carattere poetico e quasi elegiaco nel terzo movimento (Largo). Nell’ultimo movimento, Vivace, il ritmo di tarantella del tema principale contrasta con la ripresa di elementi del primo movimento che qui assumono la forma di una fanfara. In questa incisione, pubblicata dall’etichetta Lyrita, i due concerti sono eseguiti, rispettivamente, dalla sezione dei fiati e da quella degli archi della Philharmonia Orchestra sotto la direzione di David Parry che non solo stacca dei tempi adeguati, ma riesce a trovare soprattutto nel Concerto per violino e fiati delle sonorità tali da non soverchiare mai il solista con il quale riesce bene ad amalgamarsi. Splendida la perfomance di Cristina Anghelescu che mostra la sua grande abilità tecnica nei movimenti di carattere virtuosistico e una cavata molto espressiva in quelli lenti.
Il secondo CD di questa proposta discografica dell’etichetta Lyrita è dedicato al Concerto per violoncello e orchestra, che, composto nel 1997, un anno prima della morte, si configura quasi come un testamento spirituale del compositore che all’epoca aveva 85 anni. Il Concerto appare venato da una profonda malinconia sin dal primo movimento Violante, doloroso, la cui parte iniziale ricorda il movimento centrale del Quarto concerto per pianoforte e orchestra di Beethoven. Nel secondo movimento, di carattere vivace, si può ascoltare una splendida ed espressiva cadenza, mentre il terzo movimento, Adagio, conquista per la bellezza della malinconica melodia affidata al solista. Un carattere pastorale, realizzato anche attraverso l’uso delle doppie corde nella parte del solista, informa il quarto movimento, Andante. Ad esso segue un altro movimento vivace (Vivo) che conduce a un Moderato che prelude al Largo conclusivo nel quale ritorna in una forma rivisitata il materiale tematico del primo movimento. Ad eseguire questo concerto è la Albany Symphony Orchestra sotto la direzione di David Alan Miller che, come il suo collega, stacca tempi adeguati e trova sonorità altrettanto adeguate. Dotato di una solida tecnica, Anthony Ross risolve con grande facilità i passi virtuosistici del concerto e sfoggia una cavata intensa ed espressiva in quelli di carattere lirico.
Torino, Teatro Regio, stagione lirica 2024-2025
“ANDREA CHÉNIER”
Dramma di ambiente storico in quattro atti su libretto di Luigi Illica
Musica di Umberto Giordano
Andrea Chénier GREGORY KUNDE
Carlo Gérard FRANCO VASSALLO
Maddalena di Coigny MARIA AGRESTA
La mulatta Bersi MARA GAUDENZI
La contessa di Coigny FEDERICA GIANSANTI
Madelon MANUELA CUSTER
Roucher ADRIANO GRAMIGNI
Pietro Fléville e Fouquier-Tinville NICOLÒ CERIANI
Il sanculotto Mathieu VINCENZO NIZZARDO
Un “incredibile” RICCARDO RADOS
L’abate poeta DANIEL UMBELINO
Dumas TYLER ZIMMERMAN
Schmidt JANUSZ NOSEK
Il maestro di casa MARCO SPORTELLI
Una pescivendola EUN YOUNG JANG
Flando Fiorinelli ANDREA MAURI
Orchestra e coro del Teatro Regio di Torino
Direttore Andrea Battistoni
Maestro del coro Ulisse Trabacchin
Regia Giancarlo Del Monaco
Scene Daniel Bianco
Costumi Jesús Ruiz
Luci Vladi Spigarolo
Torino, 22 giugno 2025
Ultimo titolo della stagione 2024-25 e primo affidato ad Andrea Battistoni in qualità di direttore musicale del teatro Regio di Torino “Andrea Chénier” torna a Torino con una produzione di gran lusso che pur non avendoci convinto pienamente in tutte le componenti si conferma dimostrazione di qualità produttiva e d’impegno artistico assolutamente encomiabili. Battistoni mostra già ottima sintonia con i complessi torinesi che gli garantisce una perfetta tenuta tra palcoscenico e orchestra. Sul piano esecutivo notiamo un forte senso teatrale e uno spiccato gusto per i contrasti. Particolarmente riuscite sono le scene più liriche dove la direzione raggiunge notevoli picchi di partecipazione emotiva – esemplare in tal senso “La mamma morta” in perfetta sintonia con lo straziante lirismo del canto dell’Agresta – mentre altrove si lascia un po’ trascinare. L’inizio del secondo atto e la conclusione dello stesso sono resi con un andamento fin troppo precipitoso. Molto buona la prova dell’orchestra e sempre magnifica quella del coro assai impegnato anche sul versante attoriale. La prova di Gregory Kunde ha del miracoloso. Certo a più di settant’anni qualche ruga si nota, specie nel settore medio-grave, ma appena la linea sale trova uno squillo e una fermezza che vince ogni sfida del tempo. L’interprete è poi perfettamente padrone del personaggio. Il suo è uno Chénier autentico poeta, lontanissimo dalla prosopopea retorica di una certa tradizione sostituita da una sincerità di accento e da una spontaneità espressiva che non possono che conquistare. Maria Agresta è però la vera trionfatrice della serata. Voce schiettamente lirica evita ogni forzatura, non cerca una drammaticità che è estranea alla sua voce ma piega il ruolo alle sue qualità con grande intelligenza. La voce di luminoso lirismo è sfruttata con somma intelligenza da un fraseggio che scava ogni cifra del personaggio rendendone la maturazione progressiva con rara sensibilità. Quando poi si arriva ai momenti più drammatici la sincerità espressiva del canto dell’Agresta giunge immancabilmente a commuovere. Splendidamente accompagnata da Battistoni risulta emozionante fino alle lacrime nella grande aria del III atto.Franco Vassallo ha sicuramente una voce possente ma come interprete è un po’ monocorde, più feroce rivoluzionario che idealista schiacciato dalle disillusioni. Rende bene nei momenti più drammatici e concitati ma nei grandi squarci lirici di “Io della Redentrice figlio” o “Io t’ho voluto allor che tu piccina” risulta troppo prosaico, priva di quell’abbandono che certe melodie naturalmente richiedono. Molto buone – al netto del troppo flebile Abate di Daniel Umbelino – le parti di fianco. Forse nessuna oggi conosce la parte di Madelon come Manuela Custer è nessuna sa imprimere al personaggio una tale icasticità teatrale pur nella brevità della parte. Federica Giansanti è una Contessa sfumata ed espressiva, Mara Gaudenzi una Bersi di carattere e forte presenza teatrale. Vicenzo Nizzardo dona a Mathieu una bella linea vocale e un’interpretazione sobria e senza fronzoli; voce ricca e di bel colore per il Roucher di Adriano Gramigni e ben centrato l’Incredibile di Riccardo Rados. La regia di Giancarlo Del Monaco è sicuramente più divisiva. Il regista parte da una concezione fortemente pessimistica della storia che nega ogni valore al progresso umano e in cui ogni illusione si trasforma in orrore, ogni libertà in tirannide. Dopo un primo atto sostanzialmente tradizionale l’irrompere di militari armati di mitragliatrici cambia il passo dell’opera. I tre atti successivi rinunciano a ogni colore, a ogni luce. Sono cupe muraglie di cemento, torrette di guardia, grate che ovunque opprimono. Le epoche si mischiano. Il Settecento si fonde con gli anni della II guerra mondiale e questi con la nostra contemporaneità. Tutto può fondersi perché tutto è solo oppressione e squallore. Resta solo l’amore come speranza di fuga – se non di redenzione – individuale.Lettura condotta con assoluta coerenza registica e con rara capacità di lavoro attoriale – si vedano i gesti minuti, quasi rallentati con cui Chénier e Maddalena tentano di sfuggire ai fari delle sentinelle. Il rischio è però quello di un’eccessiva cupezza, di una mancanza di contrasti che rischia di spegnare quasi l’attenzione. Resta da chiedersi se serva davvero tutto questo insistere su una violenza mostrata con gusto quasi voyeuristico – Bersi freddata alle spalle mentre tenta di raggiungere la padrona, questo voler appiattire tutto su un presente diretto e immediato anziché lasciare alla sensibilità del pubblico di ricostruire la trama che lega passato e presente e l’eternità dolorosa degli affetti umani. Risposte che forse non esistono se non nell’intima sensibilità di ognuno.
Roma, Caracalla Festival 2025
WEST SIDE STORY
basato su un’idea di Jerome Robbins
Libretto di Arthur Laurents
Musica di Leonard Bernstein
Liriche di Stephen Sondheim
Tony MAREK ZUROWSKI
Maria SOFIA CASELLI
Anita NATASCIA FONZETTI
Bernardo SERGIO GIACOMELLI
Riff SAM BROWN
Qui il resto del cast
Coreografie Sasha Riva e Simone Repele
Scene Paolo Fantin
Costumi Carla Teti
Luci Alessandro Carletti
Regia Damiano Michieletto
Direttore Michele Mariotti
Orchestra e Corpo di ballo del Teatro dell’Opera di Roma
Nuovo allestimento Teatro dell’Opera di Roma
Roma, 05 luglio 2025
Il nuovo allestimento di West Side Story presentato dal Teatro dell’Opera di Roma alle Terme di Caracalla, con la regia di Damiano Michieletto e la direzione musicale di Michele Mariotti, si inserisce con decisione nel filone delle riletture radicali. La regia di Michieletto intende liberare West Side Story da ogni tentazione nostalgica, trasferendola in un presente segnato da disillusione, fratture sociali e sorveglianza diffusa. La scena – una piscina in disuso, crepata e invasa da detriti – delinea un paesaggio post-urbano, desolato ma non privo di riferimenti simbolici. Al centro, la fiaccola spezzata della Statua della Libertà suggerisce una visione corrosa dell’ideale americano, evocato nella sua rovina più che nella sua promessa. L’allestimento, così concepito, stabilisce un suggestivo parallelismo con le stesse Terme di Caracalla, nate come complesso termale monumentale, ricco di vasche e piscine: una piscina scenica dentro le rovine di piscine reali, metafora di un doppio collasso – storico e ideologico – che interroga lo spettatore su ciò che resta, oggi, dei miti fondativi della collettività. Siamo lontani dalla New York realistica dell’originale: Jets e Sharks si muovono in uno spazio allegorico, sospeso tra degrado e astrazione. Questa scelta, pur coerente nella sua radicalità, si scontra in alcuni momenti con l’impianto lirico dell’opera, ancorato a una dimensione relazionale. Il linguaggio musicale di Bernstein e il testo di Sondheim esprimono tensione emotiva e desiderio: elementi che, a tratti, faticano a trovare corrispondenza nell’estetica spoglia della regia. Non sempre questa distanza si traduce in tensione drammaturgica: nei passaggi più intimi, la rarefazione scenica rischia di ridurre la parola a superficie, privandola di peso. Michele Mariotti, dal podio, affronta la partitura di Bernstein con una visione lucida, strutturalmente solida e musicalmente ispirata, restituendone appieno la ricchezza timbrica e la varietà stilistica. Jazz, sinfonismo novecentesco, idiomi latini, Broadway song e complesse architetture poliritmiche scorrono in un flusso coerente, articolato con rigore analitico e naturalezza interpretativa. L’orchestra risponde con grande reattività a ogni cambiamento di clima espressivo, restituendo la stratificazione del tessuto sonoro con precisione e duttilità. La direzione evita ogni forma di compiacimento o retorica, rifiutando tanto l’enfasi cinematografica quanto il neutralismo sinfonico. Ogni sezione – dagli ottoni alle percussioni, dai legni alla sezione ritmica – è valorizzata come voce autonoma, funzionale alla drammaturgia interna della partitura. Il fraseggio orchestrale è cesellato, le dinamiche finemente sfumate, il bilanciamento timbrico sempre attento alla costruzione narrativa del suono. Ma il dato più rilevante è forse la sua relazione con la scena: Mariotti mantiene un contatto costante e partecipato con i cantanti, sostenendoli con una direzione flessibile e generosa, capace di adattarsi al gesto vocale e alla parola drammatica. Marek Zurowski interpreta Tony con voce ampia, ben proiettata, e una linea lirica morbida, non sempre pienamente controllata ma capace di sostenere l’eloquenza emotiva del personaggio. La sua presenza scenica è marcata da una fisicità evidente, che non cerca di nascondere ma anzi espone con naturalezza, anche quando risulta talvolta più impattante che realmente calibrata rispetto alla fragile idealità di Tony. La lettura resta ancorata a un modello narrativo tradizionale – l’innocente travolto dalla passione e dal rimorso – che la regia non si cura di mettere in crisi. L’interpretazione è professionale, sincera, ma priva di ambiguità o torsioni interiori. Sofia Caselli presta a Maria un timbro limpido, una tecnica solida e un’intenzione interpretativa calibrata. Il suo fraseggio è corretto, l’intonazione precisa, il registro acuto ben gestito. Ma anche qui il personaggio rimane imprigionato in un ruolo simbolico: figura eterea e pacificatrice, portatrice di un’innocenza che la scena, peraltro, rende impossibile. Il conflitto tra testo e ambientazione è irrisolto: la Maria cantata non corrisponde mai davvero a quella che si vede. Molto più centrata, invece, l’interpretazione di Natascia Fonzetti, che nel ruolo di Anita riesce a spezzare la cornice archetipica. La sua vocalità è piena, potente, il ritmo è impeccabile, l’espressività misurata ma penetrante. In America il suo corpo e la sua voce costruiscono un personaggio consapevole, ironico e lucido, perfettamente integrato nel linguaggio scenico. Sergio Giacomelli (Bernardo) e Sam Brown (Riff) offrono prove solide: il primo con voce brunita e asciutta, il secondo con energia ritmica e controllo scenico. Per tutti gli interpreti si percepisce una maggiore disinvoltura nelle parti cantate, mentre la componente recitativa appare in alcuni casi meno rifinita e omogenea nel tono e nell’intenzione. In linea il resto del cast. Le coreografie di Sasha Riva e Simone Repele abbandonano del tutto la grammatica di Robbins, elaborando un linguaggio nervoso, frammentato, fatto di strattoni, rigidità, collisioni. Il corpo non è più veicolo di liberazione, ma dispositivo di tensione e contenimento. Una scelta coerente con la visione registica, ma che accentua la sensazione di spaesamento emotivo. Questo West Side Story non è certo un’operazione nostalgica, né tantomeno un esercizio di calligrafia teatrale. È, piuttosto, un tentativo – per molti versi lodevole – di reiniettare senso politico e urgenza estetica in un’opera iconica, anche a costo di esasperarne le frizioni. Che il risultato sia irrisolto, talvolta incoerente, non ne inficia la necessità. L’opera di Michieletto ha almeno il merito di non rifugiarsi nel comfort della filologia né nella grazia inoffensiva del citazionismo. I personaggi restano prigionieri dei loro archetipi come cavie in un esperimento semiotico, ma l’apparato complessivo – musicale, visivo, coreografico – insiste nel porre domande, anche quando pare ignorare le risposte. E se la fiaccola della libertà viene rappresentata a pezzi, con zelo quasi didattico, forse è proprio perché si è ormai smesso di credere che possa scaldare. Al massimo, illumina – brevemente – il bordo delle crepe. Photocredit: Fabrizio Sansoni / Teatro dell’Opera di Roma
Ich bin in mir vergnügt BWV 204 si suppone sia stata composta tra il 1727 e il 1728, ma non è chiaro quale potesse essere il suo scopo originario. Il testo, adattato da un libretto di Christian Hunold (1681-1721), è uno dei più soggettivi e introspettivi tra quelli composti da Bach.
Di certo è una partitura poco considerata, forse per la natura personale del testo, o forse per l’apparente mancanza di varietà vocale, visto che si tratta di composizione per soprano impegnata in tutti gli otto movimenti. Un’altra ragione potrebbe essere il fatto che, come abbiamo detto, non ne sappiamo la destinazione. Certamente contiene temi che vengono regolarmente esplorati nelle cantate religiose, come ad esempio l’affermazione che la ricchezza non porta felicità o appagamento spirituale e la soddisfazione che si può trarre dalla pace interiore di accettare la parola di Dio e le sue leggi. Ma queste argomentazioni non sono incentrate su un giorno particolare o su un tema dell’anno ecclesiastico; né Dio, o la nostra lode e apprezzamento dei suoi benefici, sono il punto focale del testo. Si tratta piuttosto di un’opera che guarda all’interno della psiche umana, esplorando nozioni sul comportamento personale, sugli atteggiamenti e sulla ricerca di conforto spirituale e pace interiore. Le quattro arie, raggiungono un senso di varietà e contrasto attraverso diverse combinazioni strumentali. Le due centrali fanno ricorso rispettivamente a un violino e a un flauto come strumenti obbligati, mentre quelle esterne sono leggermente più ricche, la prima per due oboi e l’ultima per orchestra d’archi e flauto. In questo alternarsi di recitativo-aria ascoltiamo la prima (Nr.2) che inneggia alla calma interiore, splendidamente accompagnata da due oboi che si intrecciano. La seconda (Nr.4) riprende il tema della ricchezza mondana che implica la povertà spirituale (e viceversa) e qui la bella linea vocale dell’aria è accompagnata da un brillante violino solista. Segue il messaggio dell’appagamento attraverso la comunione con Dio e qui l’aria (Nr.6) fa brillare il flauto. Il recitativo finale continua il tema del denaro come radice del male e si sviluppa in arioso in cui anche gli amici della vita mondana sono giudicati inaffidabili. L’aria finale (Nr,8), che amplifica il messaggio, ossia che la vera felicità deriva dall’unione con Dio, è uno dei più bei brani musicali del repertorio bachiano. Il compositore l’ha utilizzata nuovamente nella Cantata BWV 216/3 e BWV 216a/3 e forse anche nella perduta Passione di San Marco.
Teatro Ponchielli, Monteverdi Festival 2025, Cremona
“ERCOLE AMANTE”
Tragedia di un prologo e cinque atti di Francesco Buti
Musica di Francesco Cavalli
Ercole RENATO DOLCINI
Cinzia/Venere/Bellezza PAOLA VALENTINA MOLINARI
Iole HILARY AESCHLIMAN
Giunone THEODORA RAFTIS
Hyllo JORGE NAVARRO COLORADO
Deianira SHAKED BAR
Nettuno/Ombra di Eurito FEDERICO DOMENICO ERALDO SACCHI
Pasithea CHIARA NICASTRO
Licco DANILO PASTORE
Paggio MAXIMILIANO DANTA
Mercurio MATTEO STRAFFI
Tevere ARRIGO LIVERANI MINZONI
Tre grazie BENEDETTA ZANOTTO, GIORGIA SORICHETTI, ISABELLA DI PIETRO
Orchestra e Coro Monteverdi Festival – Cremona Antiqua
Maestro concertatore e direttore del coro Antonio Greco
Regia Andrea Bernard
Scene Alberto Beltrame
Costumi Elena Beccaro
Light designer Marco Alba
Coreografie Giulia Tornarolli
Nuova produzione Monteverdi Festival, Fondazione Teatro Ponchielli
Cremona, 27 giugno 2025
L’”Ercole amante” di Cavalli non si può definire un’opera del tutto sconosciuta, dato che dal ‘61 in avanti viene periodicamente ripescata, sia in Italia che all’estero. Pur mancando un’effettiva Cavalli renaissance, infatti, l’opus del cremasco negli ultimi decenni si trova in un fioco quanto persistente cono di luce: “La Calisto”, “Xerse”, “L’Elena”, “L’Erismena” e soprattutto “L’Eliogabalo” e proprio “L’Ercole amante”, hanno visto recenti messe in scena e incisioni. Apprezzabile, in ogni caso, la decisione del Monteverdi Festival di Cremona di lasciare uno spazio anche all’altro compositore locale, sebbene i risultati di questa operazione siano alquanto alterni: il Ponchielli registra un pubblico assai scarso; la compagnia di canto è complessivamente apprezzabile, con alcune “vette” e altre “cadute”: tra le prime si assesta senz’altro Theodora Raftis, intensa Giunone, dal bel colore e l’omogenea linea di canto, con un pieno controllo del canto d’ agilità; Shaked Bar e Hilary Aeschlimann (Deianira e Iole) sono due soprani dal colore vocale piuttosto simile, più “tonda” ed elegiaca la prima, la seconda affilata. Federico Domenico Eraldo Sacchi brilla come Ombra di Eurito, grazie alla cura del fraseggio unita a un efficace coinvolgimento scenico. Sacchi è stato anche un apprezzabile Nettuno. Si distingue, anche Maximiliano Danta, giovane controtenore dalla vocalità fresca e naturale, vincitore nel 2024 del Concorso Cesti di Innsbruck. Destano più perplessità invece le prove dei due protagonisti: Renato Dolcini è un Ercole riuscitissimo sul piano scenico, sul piano vocale, dopo un inizio un po’ incerto, non ben a fuoco nell’emissione, si riprende nel corso dell’opera mostrando una vocalità più solida e ben sostenuta. Anche Paola Valentina Molinari dimostra da subito un bel talento attorale, che si esprime in una prova certamente onerosa – tre ruoli: Cinzia, Venere e Bellezza; il suono, tuttavia, è piccolo, per quanto grazioso, e la buona tecnica non sempre compensano il limite di corpo vocale. Lascia altresì perplessi Danilo Pastore, nel ruolo del fido attendente di Deianira, Licco. Pastore non canta con l’emissione non “impostata” (pratica spesso adottata dai cantanti di musica antica, ma non mi pare questa scelta sia calzante per Cavalli) ed è fortemente penalizzato da una scellerata scelta registica di trasformare il personaggio da corteggiatore della protagonista a suo amico en travesti dal fare di mezzana. Questo non ci sorprende, giacché la regia di Andrea Bernard sembra voler spegnere qualsiasi afflato di eroismo nei personaggi – ed è paradossale, se pensiamo che il tema del Festival di quest’anno è “Heroes”: tutto è stemperato in un gioco comico spesso forzato o fuori luogo, vista la natura tragica del testo (con un lieto fine, ma indiscutibilmente tragica, a partire dalla sua fonte principale, ossia “Le Trachinie” di Sofocle); questa pesante distorsione trova accoglimento anche nei costumi di Elena Beccaro, un mix di fast fashion e costume sartoriale, mentre le scene di Alberto Beltrame sono di una rassicurante eleganza – una sorta di sala teatrale perlinata dai toni pastello, il cui palco rappresenta altre dimensioni: il divino, l’oltretomba, ma anche il metateatrale. Molto apprezzate senz’altro le coreografie di Giulia Tornarolli, per quanto talvolta un po’ peregrine – davvero magnifiche quelle della scena del fantasma. La concertazione di Antonio Greco è stata come al solito di alto livello, molto attento a valorizzare le singole componenti dell’orchestra, in particolare gli ottoni che (inspiegabilmente) durante il prologo sono sistemati in fondo alla platea coi timpani. L’apporto del coro (istruito dallo stesso Greco) è pure pregevolissimo, sia sul piano musicale che su quello scenico, sebbene la regia abbia deciso per lo più di impegnarlo in una serie di trovate in genere slegate dal contesto, che rischiano di distrarre il pubblico. In conclusione ci sorge una domanda: ciò che abbiamo visto e udito questa sera è effettivamente “L’Ercole Amante” di Cavalli, con tutto il suo portato storico-culturale ineludibile? La risposta ci pare negativa. È una sua rielaborazione attuale? Nemmeno, perché la musica è quella del cremasco. È stato un bello spettacolo? A fasi alterne, sì. Forse un festival importante come il Monteverdi di Cremona dovrebbe impegnarsi nel riscoprire opere, ma anche nel rispettarne la forma originaria, per farle conoscere al pubblico per quello che sono, e riservare sperimentazioni e drammaturgie nuove alla sacra trilogia monteverdiana. Foto Lorenzo Gorini